A suo modo, Gianfranco Rosi ha fatto la storia. Nellanno in cui i documentari approdano per la prima volta in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia – due per la precisione, anche The Unknown Known di Errol Morris – uno di questi, Sacro GRA del suddetto Rosi, vince il Leone dOro, riportando il premio in Italia dopo 15 anni di assenza (lultimo fu Gianni Amelio con il bellissimo Così ridevano). Che poi raggiunga questo risultato con un film molto bello e sorprendente – come lha definito il presidente della giuria veneziana Bernardo Bertolucci – che corona una carriera di grande documentarista è una nota di merito ancora più lucente.

Il film descrive la vita che si svolge lungo il Grande Raccordo Anulare, lanello autostradale che circonda Roma, attraverso i suoi personaggi marginali, prostitute, affittuari, curatori di palme, nobili decaduti, tenutari di palestre e attori di fotoromanzi con approdo sul barcone di un anguillaro che racchiude lessenza popolana di un mondo.

Rosi ha impiegato due anni per le riprese, girando con il camper lungo il GRA, vivendo a strettissimo contatto con i personaggi che descrive, e circa otto mesi per il montaggio, per realizzare un film che viene definito documentario di creazione, ossia quella forma di documentario in cui la ripresa della realtà passa attraverso luso del linguaggio cinematografico, del montaggio, degli elementi che separano la realtà dalla rappresentazione.

E così dopo i barcaioli indiani di Boatman, lumanità depressa come la terra in Below Sea Level, la mafia vista dagli occhi di chi uccide a pagamento in El sicario Room 164, opere che lo hanno fatto conoscere e amare nel novero dei circuiti internazionali, Rosi in Sacro GRA descrive la civiltà fuori dai confini riconosciuti della capitale, tratteggia il Grande Raccordo Anulare di Roma come limbo dentro il quale galleggiano personaggi marginali eppure carichi di vita e dignità, di speranza e consapevolezza della difficoltà della vita, in cui la differenza tra dentro e fuori la città è speculare al limite tra dentro e fuori la società.

Come racconta – e ha sempre raccontato – la sottile linea che segna il vivere civile ed emargina gli outsider, spesso felici di esserlo, così Rosi lavora sui confini tra documentario e creazione, li mescola, gioca anche stilisticamente proprio sul confine tra generi e linguaggi: senza la narrazione del documentario, senza un filo conduttore esplicito, Sacro GRA guarda i suoi personaggi, gli ruota intorno, mostra senza dimostrare e permette allo spettatore di partecipare alle loro vite, di appassionarsi ai gesti anche minimi eppure fondamentali perché racchiudono un mondo e una vita, che il film suggerisce, racconta indirettamente.

Da questi ritratti che si legano sempre di più, Rosi realizza un magnifico affresco in cui il cinema si fa vita per poi tornare creatività, con un atteggiamento finalmente vicino alla vera commedia italiana, in ogni senso, in cui il sorriso e la risata che partono dallo strato popolare della popolazione portano alla descrizione di una realtà tanto più vivida e credibile quanto più vicina alla capacità del regista di “mettere in scena”: come con i personaggi, con i quali Rosi ha empatizzato, dei quali ha condiviso scampoli di vita, dei quali ha lasciato libera anche la vena esibizionista e attoriale se questo serviva a farne emergere forza e ironia. Ed è servito, nemmeno poco.