Remake di un gran pezzo di cinema depalmiano, anche se non propriamente secondo a esso in senso produttivo. Loriginale del 1976, riduzione cinematografica della prima novella scritta dal ben noto Stephen King nel 1974, ebbe un pessimo seguito nel 1999 (Carrie 2), in cui Emily Bergel vestiva i panni della sorellastra di Carrie per poi ripeterne le gesta e la mini-serie tv Carrie (2002) con Angela Bettis nei panni della giovane. Ma va anche citato il musical Carrie che nel 1988 si rese famoso per essere stato uno dei più grossi flop in quel di Broadway: con perdite intorno ai 7 milioni di dollari, chiuse dopo solo cinque spettacoli.
In epoca di rifacimenti e riproposizioni a una nuova generazione di pubblico per il quale gli anni 70 risultano essere probabilmente una remota era geologica, va da sé che anche il prodotto De Palma-King debba essere remeccato, con lauspicio che, alla nuova leva di attori lavventura possa portare la medesima fortuna che portò agli interpreti originali, tra i quali si poteva scorgere anche un misconosciuto John Travolta.
La regia di questa nuova-vecchia avventura va alla statunitense Kimberly Peirce, la qual cosa parrebbe saggia dato che una donna potrebbe rileggere con sensibilità diversa le critiche dinamiche di un film che vede la donna assoluta protagonista, del dramma che corre fra Carrie e la folle madre, nonché il trauma del menarca, del divenire donna, che poi, per estensione del concetto, significa diventare grandi; quello della crescita e del difficile abbandono della fanciullezza è un leitmotiv di King per il quale tale passaggio non è mai privo di turbamenti divenendo un cimento spesso accompagnato da una fenomenologia paranormale (si pensi a Shining, It, per citare due famosissimi lavori).
Tuttavia, la Peirce (nota ai più per Boys Dont Cry, 1999) non sembra aver riletto con particolare originalità femminile il film realizzato da De Palma, anzi sembra aver preferito realizzarne una replica, al punto da recuperare per la sceneggiatura Lawrence D. Cohen già impegnato per lo stesso compito nel 1976; scelte da imputarsi non solo alla regista, ma forse ancor più alla produzione. Comunque, date le premesse, non stupisce che la trama sia pedissequa alloriginale.
Carrie White (Chloë Grace Moretz) è un innocente e disadattato fiore di campo, cresciuta dalla delirante e castrante madre Margaret (Julianne Moore) la cui nevrosi religioso-sessuale lascia la figlia totalmente sprovveduta per ciò che concerne la conoscenza degli altri e di se stessa, anche relativamente alla conoscenza del proprio corpo. Non sorprendentemente, il giorno del primo flusso mestruale viene accolto come orrida sorpresa da Carrie la quale, per lindotta ignoranza, crede di essere stata colpita da unemorragia mortale. La sprovveduta ragazza viene fatta oggetto di pubblico scherno e umiliazione da parte delle compagne di scuola, testimoni del suo menarca; soprattutto Chris Hargensen (Portia Doubleday) sembra avere particolarmente in odio Carrie, anche perché le sue malversazioni nei confronti di Carrie le procureranno linterdizione alla partecipazione alla Prom Night organizzata dal liceo.
D’altra parte Sue Snell (Gabriella Wilde), in colpa per le offese recate a Carrie, fa in modo che la giovane venga accompagnata alla festa scolastica dal suo ragazzo Tommy Ross (Ansel Elgort). Mamma Margaret diffida la figlia dall’andare alla festa, ma Carrie, che progressivamente è divenuta consapevole dei poteri telecinetici che sembra possedere, sfida la bigotta genitrice e accetta l’invito di Tommy. Tuttavia Chris ha pianificato di far eleggere Carrie a reginetta della serata per poi darle il colpo di grazia con uno scherzo brutale. Nessuno, però, ha fatto i conti con i poteri psichici della ragazza…
Nonostante i pubblici boast secondo i quali questo nuovo Lo Sguardo di Satana – Carrie (wow, i distributori italiani hanno ribaltato il titolo del 1976!) avesse recuperato parti del racconto espunte nella versione di De Palma, ciò non sembra essere avvenuto. A parte qualche piccola scena nuova e un minimo approfondimento su mamma Margaret e sulla bellissima Sue Snell, pare proprio che la regista abbia voluto realizzare un tributo all’originale del ‘76 più che una sua personale visione della cosa; la cosa si rende evidente con la riproposizione della scena finale in cui Sue visita una tomba (non dirò di più), sequenza non scritta da King ma inventata da De Palma, scena che tutti i conoscitori dell’originale sanno essere una delle più spaventose e che ora, rifatta, ovviamente risulta fortemente sbiadita.
La Peirce, come coloro che hanno diretto gli altri rifacimenti, sembra non aver avuto il coraggio di aggiungere alla storia una sua impronta tecnico-artistica come fece invece De Palma, il quale tramite lunghi piani sequenza, split-screen e anche sì nudi integrali innalzò di un buon palmo la sua pellicola horror dalla media delle produzioni dello stesso genere. Ecco, sì, i nudi, mai come nell’originale del 1976 necessari per dare un senso a ciò che si sarebbe visto in seguito: Carrie – Lo Sguardo di Satana si apriva con una soave scena rallentata di liceali nude nello spogliatoio (anche la protagonista Sissy Spacek era nuda), tutte ninfe bellissime che si muovono al rallenty immerse in una calda nebbia di vapore; la scena veniva bruscamente interrotta dalle urla della ragazza che scopriva il sangue mestruale. Questa scena iniziale riassumeva tutti i temi del film, la giovinezza, la sessualità, la donna, prima dipinta come un ideale di bellezza e finezza e poi trasposta in unmonstrum di crudeltà, ferocia e vendetta.
In questo remake, che modernamente calca la mano sul fattore paranormale e sull’effettistica che lo illustra (come se Carrie fosse una X-Man in fieri), si evitano le significative nudità e, grottescamente, si ricade in una forma di bigottismo che tanto felicemente sarebbe stato accolto da mamma Margaret. Rimanendo comunque inalterato il soggetto del film, molte delle riflessioni valide per la pellicola del 1976 rimangono valide anche per il remake.
Il sesso, elemento centrante nel racconto di King come pivot del passaggio dall’infanzia all’età adulta, è tuttavia presentato in una forma manichea: tanto desiderato ed esposto dai giovani, quanto represso dalla madre di Carrie che vive un delirio religioso di tipo nevrotico proprio per difendersi dai pensieri sessuali. Ciò che più colpisce, è il fatto che i timori di Margaret relativi a una società corrotta (soprattutto dal sesso), deliri in apparenza non condivisibili, vengano però subdolamente confermati nel film dal comportamento promiscuo e facilone dei ragazzi del liceo.
Ne deriva che lo spettatore si trovi fra l’incudine e il martello, con l’unica possibilità di identificarsi con Carrie; ma non è facile, Carrie ispira empatia ma non simpatia. Altro punto pivotale: il sangue. Mestruale all’inizio, segno per Carrie del passaggio all’età adulta, mortifero nel finale quando scorrerà sia sul corpo di Carrie che su quello delle vittime. E poi la violenza delle compagne, a sottolineare il Male che permea la società così temuta da Margaret (giustamente?): è una violenza tanto più brutale e inumana in quanto agita da donne, poco prima presentate in tutt’altra luce. Carrie – Lo sguardo di Satana (ops! … Lo Sguardo di Satana – Carrie) è, d’altronde, un film di donne, in cui esse agiscono come personaggi primari e secondari, compensando in toto l’insipienza degli uomini che non hanno polso (si veda il preside del liceo), che hanno generato danni (si chieda a mamma Margaret) o che sono esecutori delle strategie femminili.
Il film è un crescendo di tensione generalizzata, non solo ovviamente rispetto a ciò che concerne Carrie, ma anche rispetto alle dinamiche fra altre donne (Margaret e la madre di Sue, la maestra di ginnastica e le alunne, ecc.). Di fatto il film non si costruisce solamente come un racconto di vendetta dell’offeso, seppure questo meccanismo sia basilare e garantisca la catarsi finale, ma funziona come una sorta di pentola a pressione che utilizza la protagonista come devastante valvola di sfogo. Il tema della telecinesi di Carrie sarebbe quasi secondario (ma diventa primario in questo remake), frutto della moda del ‘70 sul poltergeist che alcuni “studi” avevano messo in relazione con poteri mentali caratteristici di individui in età infantile o adolescenziale. Così come un po’ Seventy sembrano essere spunti che riproposti oggi potrebbero risultare decisamente deboli: il fondamentalismo di Margaret (che è anche uno scontro generazionale ora meno sentito), un atto di bullismo scolastico un tempo cosa più rara, la preclusione alla festa scolastica allora sentitissima e oggi evitabile con una certa serenità. Senza riflettere sul fatto che le note stragi avvenute nelle scuole americane a opera di giovani armati come incursori dell’esercito hanno causato uno sfacelo ben più triste e concreto di quanto “magicamente” Carrie possa fare. E non basta lo spunto del filmato postato su YouTube per dare modernità alla pellicola.
Difficoltà, ancora difficoltà, quando si arriva ad analizzare il cast. Duro lavoro confrontarsi con le performance date nel 1976 dalla Spacek e Piper Laurie, lavoro che procurò a entrambe una nomination all’Oscar. L’odierna Carrie, Chloë Grace Moretz, è sicuramente bellina e ha peraltro il vantaggio di aver un’età compatibile con il suo personaggio (anzi sembra anche più piccola), mentre la Spacek aveva circa 27 anni nel 1976; tuttavia la Moretz deve faticare per risultare bruttina e impacciata, mentre la Spacek aveva una connaturata aura di fragilità. Questa divergenza viene accresciuta anche per scelta realizzativa: nel finale Carrie è consapevole e tronfia per i suoi poteri e ciò che essi generano, mentre la Carrie del 1976 vede i poteri esplodere dal suo corpo e ne è psicologicamente travolta, vittima di se stessa. Julianne Moore (che peraltro sembra una Sissy Spacek cresciuta) è una valida professionista e dà del suo, ma rimane all’ombra della performance offerta ai tempi dalla Laurie. Le comprimarie, classiche ragazze da giovanilistico film americano, potrebbero facilmente essere intercambiabili senza nessuna grossa perdita quando poi, forse inopportunamente, alla figura del bel Tommy viene ritagliato uno spazio forse più ampio del necessario (o del dovuto).
Data la volontà di non apportare nulla di sostanzialmente nuovo, visto lo scarso coraggio registico e il non rilucente risultato delle star sul set, visti gli effetti speciali costruiti secondo modelli di routine, vale per Carrie anno domini 2013 lo stesso discorso fatto per tanti altri remake realizzati nel primo decennio del XXI secolo: cui prodest? Ai produttori, certo. È però così arduo per le nuove generazioni andare a recuperare l’originale, quando esso è migliore praticamente sotto tutti i punti di vista? Non è noioso, fa paura, ci sono i nudi, c’è il sangue, fa riflettere e … attenzione, attenzione … è pure a colori!