Dopo aver visto capolavori come Schindlers list e Il Pianista è difficile immaginare un film sulla Shoah con una ricchezza emotiva di simile livello. Eppure Roberto Faenza, regista di Anita B., ci è riuscito: descrivendo lOlocausto non allinterno di un campo di concentramento, non nella prigionia del ghetto, ma nello spazio temporale del subito dopo, nella vita di colei che è riuscita a sopravvivere. Il dopo: cosa è accaduto ai sopravvissuti dei campi di sterminio? Chi sono? Come vivono? E quanto amore è rimasto nel cuore, nonostante gli orrori patiti? A queste domande prova a rispondere Anita B., che consegna alla famiglia che la ospita il suo essere sopravvissuta, un senso di fragilità insieme a un coraggio irriducibile. lei a testimoniare a chi gli sta intorno, non la violenza di Auschwitz, ma il motivo perché essa non debba essere mai cancellata.
Non è un impresa facile: le persone che si agitano intono ad Anita sono gusci vuoti, anime distratte. Non hanno voglia di ascoltare, interrogarsi sui perché della guerra, sui campi di sterminio, la crudeltà verso gli indifesi. Prendiamo Eli, esempio emblematico della vita leggera, senza memoria. Egli formula lesistenza in questo modo: alle persone interessa solo il piacere, nientaltro. Quindi non esiste neppure il rimorso di dimenticare in fretta, ci si deve sforzare ad abbandonare gli interrogativi, che sono pericolosi, per chi vorrebbe vivere lontano dalla verità.
La storia, la verità, sono concetti smisurati per coloro che sono stati sfiorati dalla guerra, quasi avvertendola come un disagio inevitabile, così non trovano meglio da fare che distrarsi (la musica, le chiacchiere) per non provare terrore. Ci troviamo di fronte allenigma delluomo che vuole rimuovere il passato per non affrontare il presente, e chi rifiuta questo modo di sentire viene ostracizzato, additato come scocciatore, o peggio nemico pubblico. la sensazione che avverte Anita, quando cerca di rompere lincantesimo maligno che permea la casa, lindifferenza verso il reale che fa male come la permanenza nel lager.
certamente un film sulla memoria, quella collettiva, la storia non si addentra sullOlocausto, tratteggia magistralmente la trappola in cui il genere umano può cadere: rinnegare i sommersi e i salvati, negando gli eventi, spegnendo la verità. Anita B. è vittima due volte: sia dei nazisti che lhanno imprigionata, sia del presente che non le riconosce la dignità di testimone, di ciò che non dovrebbe essere mai accaduto.
La speranza è che oggi gli intellettuali italiani, così pronti a schierarsi in nome dell’appartenenza politica, diano un messaggio univoco, segnalando l’opera di Roberto Faenza. Non ci troviamo sul piano del gusto personale, questo dovrebbe essere lo spunto di una battaglia di civiltà. Anita B. pone l’interrogativo sul bisogno della testimonianza, per rendere la verità inviolabile. Quando i negazionisti fanno proselitismo, asserendo che la “soluzione finale” sia una farsa oppure considerando i campi di sterminio degli innocui campi di lavoro, dovremmo comportarci come Anita B., ribadire che la memoria deve essere difesa sempre e per sempre. Non è un fatto solo di coscienza, ma senza l’esercizio della memoria perdiamo la storia, quindi noi stessi.