Il film La trattativa (o #LATRATTATIVA) di Sabina Guzzanti ci fa scorrere davanti i giorni più tragici della nostra storia recente – dal 1991 al 1994 – quando la mafia scatenò una guerriglia feroce a suon di bombe contro lo Stato, lasciando sul campo Falcone e Borsellino, decine di uomini delle forze dellordine, alcuni pentiti e persone presenti casualmente sui luoghi degli attentati, da Palermo, a Roma, a Firenze, a Milano. Sul crinale tra la Prima e seconda repubblica, Cosa nostra agì quale soggetto politico nella transizione politico-istituzionale che lItalia stava perigliosamente attraversando.
La regista mette insieme le tessere del puzzle storico e documentario per arrivare a una tesi: che la mafia, trovatasi senza rappresentanza politica, a seguito del declino dei partiti di governo della prima Repubblica, ha fatto sentire ai nuovi venuti della Seconda repubblica la propria voce, fino a trovare nel partito e nella persona di Berlusconi e di DellUtri una nuova rappresentanza politica, allombra della quale continuare i propri traffici criminali. Le istituzioni dello Stato – settori della magistratura, delle forze dellordine e dei servizi segreti, collusi con le logge massoniche, segnatamente con la P2 – hanno funzionato da retrovia e da strumento tecnico del nuovo patto politico. Verbali autentici di interrogatori e immaginazione creativa sono utilizzati per confezionare la tesi.
La tecnica del film presentato Fuori concorso allultimo Festival di Venezia utilizza due livelli narrativi: quello degli spezzoni di telecronaca, nei quali compaiono i protagonisti reali, e quello filmico, con attori che interpretano i personaggi, quali fuoriescono dai verbali giudiziari. Attori, che, a loro volta, entrano ed escono dal ruolo, sdoppiandosi sulla scena stessa come attori e come attori/cittadini impegnati in una ricostruzione storica a fini civili e politici. La macchina da presa coglie lattore nellatto del rappresentare il personaggio storico e nellatto di rappresentare se stesso, mentre recita il personaggio. Pertanto uno stesso attore può interpretare più personaggi, nello snodarsi del racconto: il prete, il magistrato, il pentito, ecc. La telecamera riprende e documenta in diretta il lavoro dei visagisti e dei truccatori, che procedono allistante a costruire una nuova identità dellattore rappresentante.
La tecnica drammaturgica oscilla tra il metodo Stanislavskij, fondato sulla piena immedesimazione del mondo interiore dellattore con quello del personaggio rappresentato, e il metodo Brecht, con il suo Verfremdungseffekt, leffetto straniamento. In ogni caso, un effetto certo lo ottiene sullo spettatore, costretto positivamente a saltare come un trapezista da una corda espressiva allaltra, facendo i conti al contempo con il messaggio del film.
Lispirazione per questo docu-film è venuta a Sabina Guzzanti – come lei stessa ha dichiarato – dal cortometraggio di Elio Petri Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli del 1970, che inizia con un breve discorso di Gian Maria Volonté: Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo, ci proponiamo attraverso luso del nostro specifico (il comportamento di attori, registi, tecnici), di ricostruire le tre versioni avallate dalla magistratura sul presunto suicidio dellanarchico Pinelli.
Di lì è venuta l’idea della messa in scena degli attori, per dichiarare il gesto d’impegno civile e per chiarire il punto di vista di chi narra. Alle spalle sta tutta la tradizione cinematografica politico-civile degli anni ‘60/70 del ‘900 di Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, Elio Petri, Giuliano Montaldo, Pietro Germi, Damiano Damiani, Mino Monicelli…
Le reazioni al film sono state inevitabilmente discordi e clamorose, quale, ad esempio, quella del giudice Gian Carlo Caselli, Procuratore della repubblica a Palermo dal 1993 al 1999, che ha giudicato “offensiva” la ricostruzione dell’episodio della mancata sorveglianza del covo di Riina, dovuta a una scelta del colonnello dei Ros, Mario Mori. Altri hanno sottolineato il progressivo scivolamento nella satira da cabaret della seconda parte del film, allorché entra in scena Berlusconi, interpretato dalla stessa Guzzanti.
Sul piano dei contenuti si sovrappongono e si intrecciano diversi livelli del messaggio, che invece la regista ha voluto consapevolmente mischiare. Il primo livello è quello storico-politico. Non è certo questo il luogo per una storia della mafia. Qualche cenno aiuterà, tuttavia. Al di là dei teoremi della propria metafisica occulta – in forza dei quali la mafia è illuministicamente considerata un corpo estraneo della società italiana, della politica e delle istituzioni e del Paese, che solo la corruttela morale della politica e delle istituzioni riesce a tenere in gioco – ciò che il film documenta è, viceversa, che la mafia è ben radicata nella società civile italiana, nella politica e nello Stato. E non da oggi. Non è un mistero, ad esempio, che la nota impresa risorgimentale dei Mille non avrebbe avuto successo, se, oltre alla discreta protezione della flotta inglese, non avesse smosso e coinvolto il ribellismo delle campagne, eterodiretto da settori della borghesia latifondista e organizzato dalla mafia delle campagne contro lo Stato borbonico.
Dunque, “Cosa nostra” è più “nostra” e più italiana di quanto vogliamo ammettere. È radicata nella società “civile” siciliana – così come altre mafie lo sono in altre zone meridionali – e tenta, talora con successo, di radicarsi nei nuovi contesti socio-economici del Nord produttivo. È radicata nella politica, almeno nel senso che controlla pacchetti di voti. Per chi vuole essere eletto, questa è l’essenza della faccenda. E perciò va a lambire le istituzioni, quali Magistratura, Polizia e Carabinieri, non solo perché professionalmente e tecnicamente contigui al fenomeno mafioso, ma soprattutto perché i loro vertici sono profondamente intrecciati con il potere politico-statuale. Da questi vertici dipendono le carriere. Si tratta di una sorta di recirculatio, in cui mafia, politica, istituzioni… si tengono.
Se il titolo del film allude a questo background storico di collusioni, ammiccamenti, alleanze, trattative, esso rispecchia esattamente quanto accaduto e quanto continua ad accadere nella società italiana meridionale e non solo. Ma il film, diversamente dalla filmografia civile degli anni ‘70, non si limita alla denuncia etico-politica, fa i nomi e i cognomi di questo intreccio, da Andreotti a Mancino, a Conso, a Dell’Utri, a Berlusconi, a Parisi, a Mori, a Tinebra, a Caselli, a Napolitano…
Il film si costituisce come una Camera di consiglio di tribunale. Tuttavia, il salto quantico di livello, da quello storico a quello giudiziario, è un salto mortale. Fornire di basi giudiziarie la storia politica o, che è lo stesso, scrivere la storia attraverso gli atti dei tribunali significa traguardarla attraverso il prisma della concreta organizzazione della giustizia italiana e dei suoi atti. Dai quali, d’altronde, la tesi di fondo storico-politica, elaborata dall’immaginazione creativa e indignata di Sabina Guzzanti, non risulta confermata.
La collusione deve essere dimostrata con le sentenze. La formulazione delle quali dipende da cose assai concrete: dall’asimmetria del rapporto accusa/difesa, dai mezzi di indagine forniti all’accusa, dalla composizione dei tribunali, dalle filiere di comando della magistratura, dai collegamenti con la politica. E se le sentenze dei giudici non collimano con quelle del tribunale degli storici, degli intellettuali, dei politici, degli opinion leader, degli indignados, i cittadini sono tenuti a prendere per buone le prime. Di questa mancata coincidenza tra il giudizio storico e quello dei tribunali il film propone una spiegazione: quella della corruzione/corruttibilità della magistratura e delle forze dell’ordine. Solo che, avendo assunto un’allure giudiziaria, non riesce a dimostrarla proprio sul piano giudiziario, se non per alcuni episodi.
Ciò che il film e tutto il movimento civile di protesta, che ha cambiato forma nel corso degli anni – dal leghismo dei cappi, al dipietrismo, al socio-civismo, agli indignados… – non riescono a vedere è non soltanto il diverso approccio epistemologico dei documenti dello storico rispetto alle sentenza del giudice rispetto allo stesso fatto, non soltanto che questa diversità è costitutiva della civiltà liberale dei diritti, ma, soprattutto, che occorrerebbe procedere a radicali riforme della giustizia, delle istituzioni e della politica.
È, infatti, probabile che, spezzando il legame perverso tra politica, magistratura e istituzioni dello Stato, le sentenze dei tribunali potrebbero riflettere più trasparentemente la storia reale. Ma per spezzare quel legame occorrono riforme costituzionali, istituzionali e, in particolare, della giustizia e la messa in questione delle sue forme di autorappresentanza corporativa, che da decenni si oppone alla propria riforma. Ma a tutto queste il partito giustizialista si oppone strenuamente, denunciando il tentativo di subordinare la magistratura alla politica.
Il circolo vizioso è diventato un cappio: l’etica è solo un’uscita di sicurezza, una via di fuga. È quanto, alla fine, viene proposto allo spettatore, cui passano davanti i fotogrammi di una storia fatta di cinismi, atrocità, fughe dalle responsabilità, sordidi legami di potere e di denaro. No, l’indignazione non è ancora una virtù.