stato probabilmente un colpo in testa di quelli belli forti a convincere Lenny Abrahamson, coadiuvato dai compagni di follia Ronson e Straughan nel ruolo di sceneggiatori, a portare sugli schermi Frank. E – a dire il vero – colpo in testa è anche lespressione che più efficacemente potrebbe descrivere lo stato danimo dello spettatore una volta uscito dalla sala. Ma andiamo con ordine. Un giovane tastierista in preda a una crisi creativa ed esistenziale si imbatte per caso in una band indipendente dal nome impronunciabile, gli Soronprfbs, e grazie a una catena di sfortunati eventi finisce per diventarne un membro stabile.
Se non dovessero bastare i primi minuti, a metà strada tra lumorismo indie british di Edgar Wright e la surreale apatia di Anderson, a far intuire il tono generale del film, basta lentrata in scena di Frank per fugare ogni dubbio: idolatrato dagli altri membri del gruppo, che vedono in lui una carismatica fonte dispirazione, il leader della band domina la scena indossando perennemente un enorme testone di cartapesta. E qui la prima menzione donore va allattore dietro la maschera, Michael Fassbender, la cui presenza scenica non fa pesare lassenza di mimica facciale.
Il film ingrana seguendo la band, dagli undici mesi di clausura nel tentativo di registrare il disco, al ritorno alla civiltà, tra concerti e tensioni interne, sempre attraverso il punto di vista del nuovo arrivato, Jon, di cui conosciamo i pensieri attraverso unonnipresente voce fuori campo e, soprattutto, grazie ai messaggi di Twitter che compaiono in sovrimpressione. Ma se si cerca un filo logico allinterno del film si rischia di rimanere delusi. O meglio, il filo logico lo si trova, volendo, a posteriori, ma limpressione generale è che si siano voluti buttare sul fuoco tanti, troppi spunti, finendo per esaurirne solo una manciata scarsa. Eppure, di fronte a buchi di trama tanto evidenti da risultare voragini, ci si chiede effettivamente se il regista sia un mestierante da quattro soldi o un geniale avanguardista.
Ciò che è chiaro, però, è che ci si trova di fronte a unopera intrigante nella sua schizofrenia. La ridicola genialità delle musiche, i cui testi sono una delle più efficaci parodie de lepoca Instagram, dove persino un rubinetto storto rischia di essere considerato arte, viene affiancata da scene drammaticamente stranianti, tanto che spesso ci si chiede, mentre si è in sala, se si debba ridere o piangere.
Come suggerisce il titolo, però, il vero fil rouge della storia è Frank. È attorno a lui che vorticano tutti gli altri personaggi, ed è sempre lui che, nonostante tutto, mantiene alta la fiamma dell’interesse. Perché no, si può dire tutto su Frank e i suoi difetti, ma non che sia un film noioso. Si può dire che i tempi comici non sono azzeccati, che gran parte dei personaggi sono delle macchiette assolutamente dimenticabili, e che a volte sembra di essere di fronte più a una sit-com che non a un film organico; ma nonostante tutto si continua a guardare fino alla fine, con un’espressione a metà tra lo sdegno, l’imbarazzo e l’estasi.
Tirando le fila, ci si accorge che il film, in fin dei conti, non è poi così lontano dagli stilemi classici della commedia drammatica: si ride, ci si rattrista, e soprattutto si riflette. Che poi questi effetti siano stati conseguiti in modi poco ortodossi, incuranti delle regole e a tratti eccessivi, questo è un altro discorso: il risultato è un film che riesce a camminare per una novantina di minuti sulla sottile linea che divide la perla dal rottame cinematografico. Da vedere, anche solo per apprezzarne il coraggio.