Uscito solo per due giorni nelle sale italiane, a cavallo della Giornata della memoria, il 27 e 28 gennaio, Hannah Arendt è stato un piccolo caso nellambito del cinema di qualità, tanto da far pensare ad alcuni esercenti di sfidare le leggi del mercato e della distribuzione e ampliarne la tenitura e facendo vendere in fretta i diritti relativi allo sfruttamento tv di un film che nel resto del mondo – come spesso accade, siamo gli ultimi arrivati – ha ottenuto risultati lusinghieri.
Il film, diretto da Margarethe Von Trotta, racconta un periodo preciso della vita della scrittrice e filosofa, ossia il processo a Gerusalemme ad Adolf Eichmann che Arendt seguì come inviata del New Yorker e diede spunto al controverso saggio La banalità del male, in cui dipinge Eichmann come un uomo ordinario che aveva smesso di pensare e chiamando in causa la cooperazione di alcuni leader del popolo ebraico.
Scritto dalla regista con Pam Katz, Hannah Arendt è un classico film biografico, composto e corretto nellimpostazione, persino accademico lo si potrebbe definire, che però ha più di un merito, cinematografico, narrativo e politico. Innanzitutto, Hannah Arendt ha il merito di ravvivare il dibattito non solo sulla figura di una delle più coraggiose e controverse filosofe del XX secolo e sul suo saggio più celebre: dibattito che non ha mancato di suscitare nuove polemiche, come quelle del regista Claude Lanzmann alla presentazione del suo ultimo documentario Lultimo degli ingiusti. Ma sono polemiche per una volta non sterili, che alzano il velo su un atteggiamento che Arendt, ebrea detenuta nei campi di concentramento francesi e poi fuggita con il marito, ha sempre stigmatizzato nella sua gente, soprattutto negli israeliani: ritrarre il nazismo come mostruosità maligna. Arendt riporta il tutto a una dimensione umana, e per questo banale.
Il film di Von Trotta riesce a raccontare, allinterno di un ritratto umano e sociale della sua protagonista, il rapporto tra luomo e i sistemi di pensiero e condizionamento in cui si trova, sottolineando la difficoltà, anche per le menti più brillanti e le anime più pure, di affrontare le prigioni della convenzione; ci riesce attraverso luso intelligente del materiale di repertorio, la pazienza con cui pedina il travaglio intimo di Hannah e di chi la circonda, ma soprattutto approfondendo una già fortissima intesa con Barbara Sukowa, sua attrice musa.
Con lei, attraverso lei, Von Trotta riesce nell’impresa di riprendere la mente e il pensiero al lavoro e di dare alla filosofia uno spessore drammaturgico che non ha bisogno di invenzioni o azzardi di regia, ma semplicemente dell’occhio e della testa di una regista consapevole che per andare controcorrente non bisogna per forza fare rumore. Basta saper pensare.