un cliché dei film horror quello di inserire almeno un personaggio dichiaratamente scettico, fermamente convinto che dietro ogni manifestazione soprannaturale ci sia una spiegazione razionale. Un cliché spesso abusato, a dirla tutta, perché è difficile immedesimarsi in un personaggio che passa tre quarti del film ad aprire porte sinistramente cigolanti e scendere scalinate nel buio più totale, salvo poi rendersi conto, a cinque minuti dalla fine, che sì, forse i fantasmi esistono davvero. Meglio tardi che mai.

Nemmeno Oculus, diretto dallastro nascente Mike Flanagan, si libera da questo cliché, ma, a differenza di molte altre pellicole, riesce a sfruttarlo in maniera efficace e verosimile, permettendo allo spettatore di immedesimarsi con i due protagonisti, e rendendo così possibile quel viaggio immobile tra specchi maledetti, realtà distorte e un onnipresente senso di inquietudine. Ma andiamo con ordine. Il giovane Tim Russel (Brenton Thwaites) esce dal carcere, pronto a iniziare una nuova vita; peccato che ad attenderlo ci sia la sorella Kayle (la scozzese Karen Gillan, famosa per aver recitato nel serial fantascientifico Doctor Who), che non ha superato il trauma infantile, ed è disposta a tutto pur di riportare a galla i fantasmi del passato.

Dieci anni prima, infatti, la famiglia Russel è stata al centro di un terribile fatto di cronaca: la madre Marie (Katee Sackhoff) e il padre Alan (Rory Cochrane) vengono uccisi in circostanze misteriose e la colpa ricade proprio su Tim, allepoca poco più che decenne. Kayle è convinta che lorigine delle loro sventure vada ricercata in un antico specchio, che allepoca della tragedia si trovava nella casa di famiglia. A distanza di dieci anni, la ragazza è ancora ossessionata dallidea di quello specchio e, dopo esserne entrata nuovamente in possesso, coinvolge il fratello nella sua disperata ricerca della verità.

Prodotto recuperando e ampliando un cortometraggio dello stesso Flanagan (stesso titolo e situazione, ma budget pressoché irrisorio), Oculus si distingue fin dallinizio da altre pellicole simili per luso frequente, quasi ossessivo, del flashback. In effetti, lo spettatore assiste a due storie differenti: la prima, ambientata nel presente, vede i due fratelli alle prese con lo specchio; la seconda, invece, ci presenta la famiglia Russel al completo, fino ad arrivare a mostrare la fatidica notte di dieci anni prima. Il continuo passaggio dalluna allaltra vicenda, tra passato e presente, è reso ancora più convincente, oltre che dallottimo montaggio di Flanagan, anche dalle performance di Annalise Basso e di Garrett Ryan (controparti ringiovanite rispettivamente di Kayle/Karen e di Tim/Brenton), che risultano convincenti pur essendo poco più che bambini.

Come si nota già dai primi minuti del film, a Tim non va esattamente a genio l’idea che la sorella rivanghi nel passato, arrivando peraltro a trascinarlo nella vecchia casa armata di telecamere, rilevatori di temperatura e congegni meccanici tanto rudimentali quanto pericolosi. Dopo dieci anni di carcere riabilitativo, lui crede di aver messo una pietra sopra al passato, mentre la sorella risulta quasi ridicola nella sua convinzione che lo specchio contenga una qualche entità malvagia. La logica di Tim pare inattaccabile, tanto che, a un certo punto, anche lo spettatore inizia a dubitare della sanità mentale di Kayle. Ma la brillante ironia di alcune battute iniziali non fa che rendere più verosimile (e di conseguenza più disturbante) la rapida discesa nel territorio dell’irrazionale. Ben presto anche Tim (e con lui lo spettatore più scettico) capisce che lo specchio sta giocando con la loro mente, costringendo i due fratelli a partecipare a un “duello mentale” da cui sembra non esserci scampo.

La struttura “a intreccio” si fa sempre più fitta e complessa mano a mano che ci si avvicina al finale, rendendo sempre più difficile distinguere la realtà dall’illusione. Siamo nel passato o nel presente? È successo davvero o è solo un’illusione provocata dallo specchio? Domande a cui diventa via via più difficile rispondere, sia da parte dei protagonisti che dello spettatore.

Tali premesse avrebbero spaventato più di un regista, ma Flanagan dimostra di poter girare un film del genere e di saperlo fare anche piuttosto bene! È difficile annoiarsi tra una battuta ironica e un pianto isterico (la Gillan dimostra di sapersela cavare in entrambe le situazioni. Chapeau), tra scene squisitamente splatter – il regista sembra essere fissato con il far mangiare pezzi di vetro, o altri oggetti taglienti, ai suoi personaggi – e attrezzature da Ghostbusters improvvisati che non sfigurerebbero in un The Conjuring – L’evocazione, o in un episodio a caso di “Supernatural”. Certo, i cliché ci sono e sono parecchi, ma, dopo aver dato prova di originalità e inventiva con Absentia(2011), si può anche perdonare a Flanagan qualche lampadina bruciata di troppo, o l’ancora più classico riflesso che si muove da solo – un vero must di ogni film con gli specchi.