Questo è un film per pochi. Nato dalla fantasia di Ari Folman, lo stesso che firmò lacclamato Valzer con Bashir, The Congress conferma e fortifica la creatività profonda e per niente banale – per quanto forse controversa – del regista israeliano. Protagonista è Robin Wright (famosa un tempo per essere la donna amata da Tom Hanks in Forrest Gump e ora tornata alla ribalta nella serie americana House of Cards), che è chiamata a interpretare se stessa, ovvero unattrice del dorato mondo di Hollywood. Robin vive in un hangar con i suoi due figli. Di cui uno, Aaron, soffre di un disturbo delludito al confine tra una malattia e una forma di difesa dietro cui il piccolo si nasconde dal mondo reale.
Ecco uno dei temi portanti della pellicola, che, secondo lo stile di Folman, usa lanimazione come principale mezzo espressivo. La Wright, infatti, è nel film una stella decadente del planetario hollywoodiano. Il suo agente le propone lultimo, grande contratto della sua carriera con la Miramount, la più potente casa di produzione cinematografica. Un contratto, questo, del tutto speciale, che le chiede di cedere i diritti della sua immagine digitalizzata, così che questa possa essere usata nei film senza che lei debba continuare a recitare.
Un ritmo lento e quasi estenuante accompagna un tono amaro nel gusto. Se pensiamo ai suoi precedenti cinematografici, fosse già solo a Valzer con Bashir, crediamo che non sarebbe potuto essere diversamente. Ari Folman, coerentemente al suo stile del tutto psichedelico e avveniristico, elabora una storia che è di per sé malinconica e complessa nel gestire diversi livelli tematici. Si parte, come accennato sopra, dal cuore del racconto racchiuso nellopposizione tra vita reale e mondo proprio, inteso come la dimensione in cui si è scelto di esistere.
Ecco il secondo punto nodale. Il concetto di scelta, di libero arbitrio, declinato qui a diversi livelli. Si passa dal piccolo Aaron, il cui personaggio è la chiave per dischiudere i molteplici sensi del film, che decide di isolarsi nel suo mondo di fantasia e di lasciare al di fuori di esso tutto ciò che lo turba. Lo fa in un modo del tutto personale, chiudendo laccesso ai suoni appartenenti alluniverso reale. Una scelta, la sua, del tutto simile a quella che la madre compie nel passaggio da attrice reale a forma digitalizzata, ma ancor più nellingresso alla città animata in cui ognuno è ciò che disidera essere. Basta una fiala, altrimenti detta droga, e tutti i propri sogni, tutto ciò che si sarebbe sempre voluto essere si trasforma in una realtà tangibile. Una via di fuga, certamente, da un mondo che non piace e che sta crollando. Con cui, al di qua del vetro, si perde completamente il contatto.
Non c’è giudizio nello stile di Folman. Solo la fredda consapevolezza di quello che potrebbe essere in un futuro nemmeno troppo lontano. Ciò che, invece, sembra messo in discussione è proprio il dorato mondo di Hollywood. Lo dice lo stesso Producer della Miramount. A breve tutto questo crollerà di fronte alla tecnica di recitazione destinata ad affermarsi. Quella digitalizzata, appunto. Del tutto spersonalizzante e quasi disumana.
Come si può, dunque, di fronte a questa evidenza, restare nel mondo reale. Se anche il cinema, nato e legittimatosi come la fabbrica dei sogni, abbatte le barriere umane e si racchiude in tanti pixel, noi tutti spettatori siamo autorizzati a “costruirci” il nostro sogno entrando in un mondo fantastico voluto dalla nostra ingannevole mente.
Crediamo che Folman sia bravo nel disegnare uno scenario fantascientifico improbabile – ma in qualche modo possibile – e che il suo intento sia di riporre nelle mani dello spettatore la decisione di adeguarcisi oppure no. Strizzandogli l’occhio, come a dire “a te la scelta”.