I nostri eroi dall’azzurra mutanda sono già al mare, mandati a casa da una squadra, l’Uruguay, che ci ha letteralmente stretti nella sua morsa (chiedere spiegazioni a Chiellini, please), fino a farci soccombere. Un tempo, come recitava la vecchia pubblicità radiofonica di “Tutto il calcio minuto per minuto”, ci si sarebbe consolati con un buon bicchiere di brandy, mentre ora, nell’epoca del 2.0, non possiamo dilungarci oltre, perché incalza la terza puntata – o meglio, la 3.0 – della nostra “Storia originale sulle origini dei Mondiali di calcio” (vi siete perse le prime due? Poco male, cliccate qui e qui).



La Grecia (antica). Gli Ellenici, a differenza di tutte le altre formazioni del tempo, basavano la propria supremazia non tanto sulle capacità agonistiche, bensì sulla logica degli schemi e sull’attitudine a riflettere in ogni zona del campo. I Greci, infatti, furono i primi a inventare una filosofia di gioco ragionata. Il loro segreto? Tre grandi pensatori in mezzo al campo – Socrates, Platones e Aristoteles -, più un trequartista geniale e inventivo a illuminare il gioco, Archimedes.



Abili facitori di trame a centrocampo, i Greci non brillavano certo per le spiccate qualità di recupero palla in fase d’interdizione. L’unico giocatore, citato dagli antichi manuali di palla pedatoria, deputato a sopperire alle carenze atletiche dei centrocampisti ellenici e al disturbo delle manovre altrui era un tal Milziade, chiamato così per la sua atavica splenomegalìa (per quel gruppo di sparutissimi non adusi, tra i nostri lettori, ai termini medici, trattasi di milza ingrossata): in ogni partita era costretto a correre così tanto che al fischio finale aveva una milza tanta, un problema che ne limitò la carriera.



Altro punto di forza dei Greci – allenati, non dimentichiamocelo, dal grande Pitagora, soprannominato “P Greco”, un Ct dagli schemi rigidamente matematici, tutti studiati sulla sua personalissima tavola numerica, una sorta di tablet ante-litteram – era la granitica difesa: i quattro fratelli Dori – alti, scultorei, un po’ rigidi – sono passati alla storia e alla mitologia del calcio come le “Colonne Doriche”.

Sulle fasce i Greci potevano contare su un’ala destra molto rapida, Achille, detto Piè Veloce, che tuttavia mal sopportava di essere tallonato dai difensori avversari; sulla sinistra, il laterale Ulisse, genio e sregolatezza, non fu mai veramente all’altezza del ruolo affidatogli. Addetto anche al recupero dei palloni fuoriusciti dallo stadio (che si affacciava sul mare Egeo), lasciò, proprio per uno di questi recuperi, la sua squadra in 10 uomini per quasi 20 anni. Nessuno seppe mai da quale tipo di sirene fosse stato ammaliato. Si disse avesse conosciuto anche Polifemo, un vecchio e temuto allenatore, cacciato dal suo club perché accusato, forse non a torto, di avere una visione tattica del calcio monolitica e limitata. Rientrò ai suoi lidi verso fine carriera, giusto in tempo però, con il carattere vendicativo che si ritrovava, per fare piazza pulita di alcuni titolari che, a suo dire, gli avevano rubato il posto in prima squadra.

Va comunque evidenziato che la grande incompiuta della squadra greca si dovette a una precaria fase offensiva: incapaci in alcun modo di offendere (mai una parola fuori posto, bandite sul campo parolacce e improperi di varia natura), giocarono per anni, quasi a voler volontariamente peggiorare la situazione, con un’unica punta, uno sperduto centravanti abbandonato al limite dell’area avversaria, inevitabilmente solo, tra le grinfie dei difensori centrali avversari. Raggio d’azione assai limitato, isolato dal resto della squadra, completamente scollato dagli altri reparti; solo, sempre solo, immancabilmente solo, in poche parole, molto ma molto solo. Il suo nome? Solone.

I Greci, come ogni squadra che si rispetti, trovarono sul loro cammino delle belle gatte da pelare; numerose occasioni li misero di fronte a compagini in grado di metterli seriamente in difficoltà. Per anni, ad esempio, i derby con i “cugini” di Sparta furono incandescenti. La Federazione Giuoco Calcio di Sparta contava su pochissimi iscritti, in tutto non più di 300, ma – data la loro proverbiale e maniacale attenzione alla preparazione atletica – gli Spartani tutti erano giocatori di grande temperamento e forza fisica. A guidare questa formazione di guerrieri nati, abili nei contrasti, duri nei tackle e implacabili nei duelli uno contro uno, fu un capitano di eccezionale gagliardìa e spirito combattivo: il suo nome era Leonida, ma in tutta l’Ellade e fino alla Persia era meglio conosciuto con il soprannome di “Gattuso delle Termopili”, in onore di una partita, avvincente e drammatica, in cui la nazionale spartana (chiamata così per via dei costumi molto frugali: giocavano senza le scarpette, senza i calzettoni, senza i parastinchi, indossando calzoncini-perizoma e maglietta senza sponsor; il portiere non utilizzava i guanti), pur in evidentissima inferiorità numerica, riuscì a mantenere intatta la propria porta contro i favoritissimi Persiani.

Ma la partita che tutti i Greci ancora oggi ricordano fu quella giocata in trasferta contro la Nazionale di Troia. Fu un vero assedio, una sfida giocata a una sola porta (una delle due famosissime Porte Scee, tipiche di quella città), difesa da uno dei portieri più forti della storia del calcio, il mitico Ettore, passato alla storia con il soprannome di “Zoff dell’Ellesponto”. Quella partita non durò 90 minuti, neppure 180. Tra continue zuffe, infortuni e duelli all’arma bianca, a fine partita, l’arbitro concesse un recupero di ben 10 anni. I Greci sfruttarono questo lasso di tempo per chiudere nella loro area i Troiani, che si difesero con i piedi, con i denti e con le unghie, ma solo negli ultimissimi secondi della sfida furono costretti a capitolare, ingannati da una finta micidiale dell’attaccante greco Ippo (che in lingua greca significa “cavallo”) Inzaghis, da quel giorno celebrato in tutta l’Ellade con il soprannome di “Cavallo di Troia”.

 

(Fine del secondo tempo supplementare. Tra sette giorni si va alla lotteria dei rigori)