Puntuale come una cambiale, si avvicina inesorabile la grigliata di Ferragosto. Alzi la mano chi di voi non ha ancora ricevuto – respingendolo – linvito dal vicino di casa antipatico (No, grazie, sono già fuori peso), dal collega dufficio malmostoso (No, non posso, sono fuori città), dai suoceri (No, siete fuori di zucca: volete rompermi le balle anche a Ferragosto?) per passare una memorabile giornata immerso negli aromatici fumi delle braci, nei colesterolemici sapori delle costine, nelle inebrianti caraffe di vino dei colli romagnoli? Non è tanto il barbecue in sé a farci indietreggiare, ma – diciamo la verità – dopo un luglio da saghe, decisamente più nibelungiche che mediterranee, ora che un po di sole ha fatto finalmente capolino, chi ha voglia di restare ore e ore in compagnia di pinze da grill, palette per i cibi più delicati, forchettoni, erogatori dacqua spray, cesti accenditori, termometri a matita, grembiuli tecnici e guanti ignifughi? Troppa carne al fuoco, mettiamola così.

E poi, è più di un mese che vagheggiamo ampi teli da spiaggia, comode sdraio prendisole, refrigeranti tuffi nel mare. Prendiamoci, allora, la giusta e meritata rivincita contro il meteo uggioso, sfoggiando un nuovo look e lanciando una nuova moda alternativa alle pratiche da serial griller: un panama in testa, occhiali da sole, costume hawaiano, infradito ai piedi e una marea di pesci, molluschi e crostacei da cuocere alla brace oppure no, assecondando lispirazione culinaria.

Lidea – come al solito – ce lha suggerita lo Zingarelli, uno che le ricette le ha letteralmente craccate a molti dei più prestigiosi chef, Carlo Cracco in primis, sparsi in Italia e non solo. Perché non proponete qualche altra ricettina del vostro libro Il fegato chiama, ma il palato se la ride e gli attacca il telefono in faccia, di cui avete già parlato un paio di settimane fa?. Ti prendiamo in parola, saggio Zinga! Ecco, allora, tre ricette tre, che vi faranno dimenticare in men che non si dica ogni rimorso per aver tradito il tradizionalissimo rito del barbecue suino e bovino e i suoi focosi seguaci.

Occhiate di invidia. una ricetta semplice, che attirerà lattenzione e la stizza dei grigliatori vicini, tutti unti e sudaticci, intenti ad abbrustolire volgari salamelle e trite bistecche di manzo (trite, ma non tritate: se no, non sarebbero bistecche). Veniamo a noi: procuratevi tante occhiate – pesce facile da riconoscere: come dice il nome, occhiata, basta dargli una sbirciatina veloce per riconoscerlo, e con unocchiata più attenta ne intuirete la freschezza – quanti sono gli invitati. Un preambolo ittiologico è però dobbligo: locchiata è un pesce dacqua salata appartenente alla famiglia degli Sparidi ed è lunica specie del genere Oblada. Questultima informazione è tuttaltro che secondaria: infatti, per cucinare al meglio le occhiate è necessario, diremmo indispensabile, accompagnare la cottura allascolto a tutto volume dello storico brano dei Beatles Obladì Obladà. Ciò renderà le occhiate più gustose e saporite, in quanto si riconosceranno come appartenenti allo stesso genere ittico e amanti dello stesso genere musicale.

Ponete dunque le occhiate sulla brace, date ogni tanto unocchiata alle occhiate e – con la coda dellocchio – unocchiata in giro, ricordandovi di tenere sempre a tutto volume Obladì Obladà. A colpo docchio, per cucinare a puntino unocchiata bastano 3-5 minuti di cottura, ma se anche non doveste rispettate i tempi con precisione, beh, si potrà comunque chiudere un occhio: le occhiate saranno comunque così gustose che ve le mangereste con gli occhi. I vostri, ovvio! Accompagnate sempre le occhiate con della buona insalata. Un bel cespo dinvidia farà linvidia di tutti coloro che non avrete invitato al vostro desco. Ultimissimo consiglio: consumate le occhiate entro sera, il rischio altrimenti è che le occhiate si trasformino in occhiaie.

Capesante alla Caparezza con cime di rapper. Dopo la “pancetta alla Benedetta” (intesa come la Parodi), a Molfetta questa è la ricetta prediletta da gustare senza fretta. Merito, ovviamente di Caparezza, cantautore e rapper pugliese, nativo proprio di Molfetta. Ingredienti: 10 chili di capesante, due o tre cime di rapper (se riuscite, anche di più), sale, erba cipollina q.b. e zafferano. Capesante, sale, erba cipollina e zafferano sono facili da reperire. La faccenda si complica con le cime di rapper. Cosa sono? I mitici riccioli dello stesso Caparezza (che in pugliese significa proprio “testa riccia”), così crespi e vaporosi da assomigliare a delle cime, cioè alle corde utilizzate dai marinai per ormeggiare le navi. Oltre che ricciute e soffici, le cime di rapper sono belle unte, il che vi consentirà di non dover condire le capesante con l’olio.

Resta il problema di come procurarsi le cime. Prenotate per tempo i biglietti del concerto del Capa, così da potervi piazzare in primissima fila; quando il rapper si avvicinerà al suo pubblico, anziché strapparvi – come tutti gli altri fan – i capelli, salite con balzo felino sul palco, e urlando a squarciagola “Capaaaa, ti amooooo!!!” infierite sui suoi (ne ha talmente tanti che trovarsi privato di qualche riccio per lui non rappresenterà di certo un problema). Rientrati prontamente a casa, conservate gli ambiti “trofei” sotto vuoto, perché strappate alla capa del Capa le cime di rapper si seccano. Le capesante alla Caparezza con cime di rapper seguono lo stesso procedimento delle capesante gratinate, mentre le cime di rapper vanno tolte dal sottovuoto solamente un attimo prima di servirle, cospargendole sulle cozze alla stregua del cacio sui maccheroni. E… “Bun’ aptit’!”, come dicono a Bari. 

Sganashata di sushi in gushi moshi. Una ricetta che unisce tra grandi scuole gastronomiche: la nipponica, quella italiana e quella delle Galapagos. Che cosa c’entrano le isole situate a mille chilometri dalle coste cilene? Hanno il merito di fornire l’ingrediente base: lo sciò, cioè la parte del guscio di tartaruga vicina alla coda, che è un po’ più molle della parte anteriore, chiamata gu, vicina alla testa e solitamente molto più dura. Questi gusci, destinati a fare da terrina, sono dunque facilmente acquistabili sul posto, alle Galapagos: il guscio deve provenire da tartarughe di almeno 190-200 anni, così da trovarlo già bello moscio (il guscio, ovviamente, mica avrete pensato male?).

Se però siete pigri (o ben peggio, taccagni) e non volete spingervi così lontano, allora acquistate nel negozio sotto casa della comune pasta frolla; la cosa non vi fa onore, ma è un’alternativa necessaria al piatto che andate a celebrare. Ciò detto, sedetevi comodamente a tavola, non prima però di aver chiamato a domicilio uno chef nipponico, indispensabile per due ovvi motivi: primo, per poter tradurre “gusci mosci” in giapponese (gushi moshi: molto più cool…); secondo, per fargli preparare la sganashata di sushi. È una varietà di riso molto simpatica: una piccola porzione, da addentare con forza fin quasi a slogarsi le mascelle (in giapponese, sganashare sushi), mette immediatamente i commensali a proprio agio, ben disposti a sorridere, ridere e sbellicarsi (in giapponese, sganasharsi) a ogni vostro commento o battuta arguta. Il segreto? Sta tutto nei chicchi di riso, qualità Renzo Arborio.