Unità di tempo reale, luogo e azione. Sembra facile e vecchio (Aristotele per la precisione). Non è né luno né laltro. Basterebbe vedere Locke per capirlo: il film di Steven Knight, interpretato da Tom Hardy, presentato e amato alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia dove era fuori concorso (oggi verrà proiettato al Meeting di Rimini), mostra la complessità di unoperazione drammaturgica che diventa anche saggio di narrazione e regia.



Il protagonista, Ivan Locke, il capo di un importante cantiere, esce dal lavoro e si mette in macchina per raggiungere Londra, che è a unora e mezza di distanza da casa sua: non tornerà infatti dalla moglie e dai figli, non sovrintenderà la più importante operazione del suo lavoro, consistente nella più grande colata di cemento dEuropa. Semplicemente perché ha un dovere da compiere, che gli farà fare i conti con se stesso.



Il viaggio e i rapporti con le persone che lo circondavano sono scanditi, nella sceneggiatura strepitosa dello stesso Knight, da telefonate che non mollano mai il protagonista, chiuso per 90 minuti in automobile, da solo con la propria coscienza e la propria morale in uno dei drammi più intenso degli ultimi tempi.

Perché il cuore di questo film pensato e costruito come un thriller per scansione ritmica e temporale e per luso della tensione – hitchcockiano in un certo senso -, è nella capacità di descrivere limportanza della responsabilità e del prendere coscienza delle nostre azioni e dellinflusso sugli altri, nella descrizione di Locke come un eroe, semplicemente perché accetta la possibilità di perdere tutto e tutti per fare la cosa che ritiene giusta.



E per raggiungere lobiettivo, Knight, al secondo film da regista dopo il discreto Redemption, mette in campo una notevolissima padronanza del mezzo cinematografico, che lo rende capace di creare una straordinaria empatia con lo spettatore, attraverso una regia abile nel trasmettere il disagio, una sapiente costruzione narrativa, una tensione incessante che si serve del montaggio (Justine Wright), della fotografia (Haris Zambarloukos) e della musica per avvincere lo spettatore e costruire un ritratto di grande forza e spessore.

Al quale la prova favolosa di Hardy, solo in scena in un film praticamente in tempo reale, conferisce la giusta preziosità: alle prese con telefonate, fantasmi del passato e rabbie che crescono come i dilemmi morali, l’attore – noto per aver interpretato il possente Bane ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno, ma anche l’ottimo Bronson di Refn – dimostra che la foga del suo fisico sa implodere e dare vita a sfumature intime e intense.