Quante volte sentiamo dire Nessuno mi fila! oppure Non cè più niente che fila via liscio!. E forse una ragione cè. Non sappiamo se intellettuali à la page, editorialisti famosi e sociologi avveduti se ne siano già accorti, ma il fenomeno segna una svolta epocale involutiva: al giorno doggi, che siano le nonne ai loro nipoti invece delle mamme ai loro pargoli, i bambini quando giocano nei cortili (quando?), le parti sociali quando devono concertare con il governo o i 28 Capi di Stato della Ue durante i loro vertici, sia come sia ma ormai le filastrocche non le canta più nessuno! una rivoluzione in negativo, forse paragonabile alla scomparsa delle lucciole denunciata da Pier Paolo Pasolini in un articolo sul Corriere della Sera, datato 1 febbraio 1975, passato alla storia.

Esagerati? Nientaffatto. Su questo punto lo Zingarelli, un vocabolario che di fila ne sa molte, avendole stroccate qua e là in giro per il mondo, non ammette repliche: Canticchiare filastrocche ai figli serve sì a farli addormentare, ma non solo. La voce amica che le recita, la sicurezza, ripetitiva quanto si vuole ma indubbiamente tranquillizzante, del focolare domestico sono tutti elementi atti a fare delle filastrocche un vero e proprio trampolino di lancio grazie al quale ottenere un miglior rendimento scolastico farsi più strada nella vita, ma, soprattutto, riuscire ad abbattere le barriere, fra individui, classi sociali, nazioni. Esistono due tipi di filastrocche – è sempre lo Zinga che incalza -. In primis quella dautore, carica di saggezza e di ironia. Un esempio: Lunedì andò da Martedì / per vedere se Mercoledì / avesse saputo da Giovedì / se fosse vero che Venerdì / avesse detto a Sabato / che Domenica era festa: un calembour, un divertente intreccio di parole che aiuta, divertendo, a riconoscere i giorni della settimana. Ma esiste anche la cosiddetta fila-str-ca, di derivazione popolare, quando non rozza, difficilmente attribuibile ad autori conosciuti, giacché chicchessia proverebbe vergogna, dichiarando di aver scritto di proprio pugno, strte e ca…te del tipo: Am Bin Blé / cicutelem blem / Pigliati uno schiaffo e non dir perché / Cucci cucci cucci che bel pancino / questa è la conta del peperino / esce fuori il più cretino!. Insomma, le filastrocche sono, o forse è meglio dire erano, il risultato dellelaborazione comune della gente, un idem sentire che scandiva i vari momenti e le attività della giornata.

Sempre ineccepibile, lo Zinga, nelle sue delucidazioni. Ma, tornando alloggi, come la mettiamo, ora che i figli si addormentano davanti alla tv, alla playstation o al computer? Basta rime, fine delle nenie, stop a ninne-nanne e filastrocche! Eppure a noi la curiosità resta, un dubbio ci tormenta sin dalletà dellinfanzia: che fine hanno fatto i protagonisti delle filastrocche che ci cantavano le nostre nonne e mamme? Lintuito e la passione investigativa ci hanno condotto a scoperte eccezionali.

Il dottore di Ambarabaciccicoccò. Ambarabacicciccò / tre civette sul comò / che facevano l’amore / con la figlia del dottore / il dottore si ammalò / Ambarabà Ciccì Coccò! 

Soffermatevi un momento e provate a pensare a quale posizione del kamasutra sia possibile assumere su uno scomodissimo comò con un rapace notturno. Provate a immaginare l’affanno (e le contorsioni) nel tentativo di trovare una posizione, non si dice comoda, ma almeno accettabile, siete pur sempre su un cassettone. E lei, la civetta? Rigida, immobile, inarticolata, vi fissa con quegli occhioni gialli, così profondi, inquietanti, infossati… un’esperienza terribile! E le altre due “bestie”? Idem con patate! Per non parlare del povero dottore: una vita dura, tutta casa e ospedale-ospedale e casa, una figlia si suppone degenere (avrà pure cercato di farla curare) che, quasi ogni sera,  è impegnata in questa attività con le tre strigide (Ambarabà, Ciccì e Coccò?). E se non fosse stata malata, ma veterinaria? O forse ornitologa? Magari un’appassionata di birdwatching estremo? Poco importa, visto che siamo venuti a sapere che il povero sventurato, trovatosi in mezzo a tali e tante orribili “civetterie” quotidiane, si è tolto di mezzo facendosi venire un bel colpo apoplettico. Tuttavia, molti dubbi permangono: perché non ha mai allontanato le civette? Perché non ha provato almeno a vendere il comò? Noi, fossimo stati al suo posto, avremmo almeno cominciato a… gufare contro di loro e contro il cassettone! Egli invece, dispensatore di salute altrui, vittima di un maleficio, si è beccato una malattia “rapace” e in men che non si dica è finito lungo e disteso su un cata…falco!

Il dottore sotto il ponte di Baracca. “Sotto il ponte di Baracca / c’è Pierin che fa la cacca / La fa dura, dura, dura / il dottore la misura / La misura trentatré / Uno, due, tre” 

Non c’è che dire, è dura la vita del medico nelle filastrocche! Levata di buon mattino, il rito della barba canticchiando “Il Barbiere di Siviglia”, e nel bel mezzo di una piacevole colazione, mentre sta addentando il suo adorato croissant… il maledetto trillo del telefono! È, come quasi sempre, la madre di quel mangiafagioli a tradimento di Pierino… L’ha fatta grossa per l’ennesima volta e, stavolta sotto il ponte di Baracca, è riuscito a ostruire il passaggio delle chiatte. Via di corsa, al ponte. Sì, ma perché misurarla? Pierino vuole a tutti i costi entrare nel Guinness dei Primati? Ma non può accedervi con prove meno ripugnanti? Beh, come direbbe Jannacci, “sono cose che la canzone non dice”, lasciamo perdere. Fatti gli appositi rilievi, comparato con precedenti “prestazioni” il dato, la misura e dice “33”. Trentatrè di che? Metri cubi? Chili? Quintali? Non è dato sapersi. Ciò che abbiamo potuto constatare è che la storia del ponte, di Pierino, della cacca e della definizione delle sue dimensioni è andata avanti per anni, forse per decenni. Tanto che quel medico, a furia di misurar le feci, si è fatto più cattivo, intrattabile a tal punto che i pazienti sono arrivati a chiamarlo “lo Stronzo”.

I maccheroni e l’Ernesto. “Cosa faremo per i bimbi buoni? / Faremo una pentola di maccheroni / ne daremo al babbo e al nonno / a quanti ci stanno intorno / a tutta la compagnia: / Ernesto lo buttiamo via

L’amara storia dei fratelli Voiella dell’omonimo pastificio (concorrenti del ben più noto pastificio “al maschile” e dediti soprattutto a menù di carboidrati per under 12 di bocca buona) ha almeno il pregio di finire bene. State a sentire. Pino, Gennaro, Totò ed Ernesto erano i quattro eredi di nonno Vincenzo, fondatore dell’azienda, e del figlio Carmelo, che con amore e innato senso del dovere aveva “tirato su” i quattro marmocchi, insieme alla moglie Trenetta, di lontane origini liguri. “Tutti di buona pasta, i miei figli”, ripeteva spesso soddisfatta. Crescevano bene i Voiella, ma quando nonno Vincenzo smise di tenere le mani in pasta, per raggiunti limiti di età, si scatenò il putiferio. Carmelo fu preso dallo sconforto, i quattro fratelli passarono da un litigio all’altro. Su una sola cosa Pino, Gennaro e Totò riuscirono a ricompattarsi: l’odio nei confronti del nonno, del papà, ma soprattutto dell’ultimogenito Ernesto, mal sopportato perché decisamente più bello, ma soprattutto più intelligente degli altri. Ma fu proprio grazie alla sua perspicacia (e ai suoi studi di medicina) che riuscì a sventare il perfido piano ordito dai loschi fratelli, che avrebbero voluto avvelenare tutta la famiglia con un piatto di maccheroni di pummarola al cianuro! La filastrocca non racconta il finale, che vi sveliamo noi: Pino, Gennaro e Totò vennero condannati, senza attenuanti, a 20 anni di carcere per tentato omicidio plurimo aggravato. Con il ricavato della vendita (a un pastificio cinese, la Balilla) dell’azienda di famiglia, Ernesto ha così potuto aprire il tanto agognato centro medico poliambulatoriale specializzato in gastroenterologia: al ramo gastrico, cioè allo stomaco, ci pensa lui, mentre per l’enterologia, vale a dire l’intestino, è riuscito a coinvolgere lo “Stronzo”, il medico del ponte di Baracca, che – pare – sia pure diventato più buono. Ancora oggi, una volta al mese, entrambi non dimenticano di inviare un fiore sulla tomba del dottore di Ambarabaciccicoccò. Della serie: “…e vissero (quasi) tutti pasciuti e contenti!”.