Presentato nel 2014 al Festival di Venezia, dove si è portato a casa due coppe per l’interpretazione dei protagonisti, Hungry Hearts è la storia di una coppia, lui newyorkese e lei italiana, la quale, dopo l’iniziale idillio, vede la propria stabilità infrangersi con la nascita del figlio. Mina (Alba Rohrwacher) si convince che il neonato debba essere protetto dal mondo esterno e da tutto ciò che è “impuro”, arrivando a segregarlo in casa sotto un’insostenibile regime alimentare a base di verdure e intrugli; il marito, Jude (Adam Driver), si trova così diviso tra l’affetto per la donna e la volontà di salvare il proprio figlio. 

Saverio Costanzo, già noto per La solitudine dei numeri primi e il remake del serial “In Treatment”, ha già dimostrato di avere uno stile proprio, oltre che una netta preferenza per le storie drammatiche. Primi (se non primissimi) piani, inquadrature claustrofobiche, forte uso della macchina a mano: il film coniuga efficacemente tocchi personali con quello stile da finto documentario tipico della Nouvelle Vague francese. E il richiamo è tanto più marcato se si considera la scelta degli attori principali: non belli, non divi hollywoodiani, ma perfetti nel non facile ruolo di due amanti qualunque. 

Con la sua andatura dinoccolata, i tratti somatici marcati e i vestiti sempre troppo grandi, Adam Driver può ricordare, a tratti, il francese Jean-Paul Belmondo; e, benché la somiglianza si fermi alla più superficiale impressione fisica, essa è tuttavia l’ennesimo segnale che il regista si sia voluto ispirare al cinema francese di fine anni ’60. 

Il montaggio non si fa scrupoli a saltare dal primo incontro al matrimonio della coppia in pochi minuti, riservando lo spazio necessario al dramma centrale. Stacchi ben dosati a parte, grazie ai quali il regista dimostra di non essere un semplice e anonimo operatore dietro la macchina da presa, il film regge interamente sulla performance dei due protagonisti. Difficile trovare attori così, capaci di trovarsi a proprio agio in una pellicola che vive di silenzi, dettagli e tempi morti, e non stupisce che entrambi abbiano catturato la critica di Venezia. 

Come dramma il film funziona, indubbiamente. vero che le tematiche – maternità, depressione, scontro di coppia – sono di quelle che più facilmente toccano corde sensibili, e il rischio di cadere nella lacrima o nel giudizio facile è sempre dietro l’angolo in un film drammatico. Ma ciò che solleva questo Hungry Hearts dal classico film confezionato ad hoc per indignare e shockare il pubblico è proprio la sua natura “documentaristica”, volutamente imparziale e a-morale. Il singolo spettatore si farà un’idea propria, finirà addirittura per parteggiare per lui piuttosto che per lei; la regia, però, rimane lucida fino alla fine, senza ondeggiamenti o patetismi. 

Non si può parlare di Nouvelle Vague, insomma, ma la volontà del regista di richiamarne alla mente i principi fondamentali è indubbia.

Un film drammatico nel senso stretto del termine, insomma, che non piacerà a chi è in cerca della lacrima facile in stile Titanic. Per tutti gli altri, Hungry Hearts è un film claustrofobico, destabilizzante e ottimamente recitato.