Siamo invasi da notizie che non ci cambieranno la vita, e quel che è peggio è che si fa quasi sempre finta che non sia vero. Che si sfogli un phablet (phablet? eccheddiavoloè???) dove un tempo si sfogliavano le margherite, si annusi una notizia in cerca di gloria (perché è sempre il segugio che può fare lo scoop), si sbirci con la coda dell’occhio gli ultimi colpi di coda della giunta Marino (probabilmente non il suo vero cognome, ma un simpatico nickname destinato a cogliere la sua propensione alla vacanza: ma anche Ignazio Montano non sarebbe poi stato così male…), le notizie futili ci ammorbano con la loro inutilità, seminano il nostro cervello di beceraggini che fioriranno a stretto giro di rimbecillimento, proliferano in una dimensione inversamente proporzionale alla qualità del loro contenuto. In poche parole, e che non ci senta lo Zingarelli, che aborra il turpiloquio e la cacolalìa: quante stronzate ci tocca quotidianamente leggere!
E allora diciamo subito “Viva… Schivazapata!”. Ma chi è? Un guerrigliero messicano capace di evitare le notizie senza senso e senza nesso? No, è l’esclamazione che ci è dal sen fuggita leggendo l’articolo “Il genio del Gene” su queste pagine. Davanti alla stupidità del quotidiano e dei quotidiani, infatti, ci sentiamo un po’ tutti dei Piero Schivazappa, il protagonista dell’ultimo libro di Gene Gnocchi, Cosa fare a Faenza quando sei morto: un uomo qualunque che “ha accumulato un’overdose di informazioni, di cui alla fine non sa che farsene” e che decide di “sparire” (l’intenzione è quella di buttarsi nell’acquedotto di Cervia), per non subire più questo insensato, ottuso e narcotizzante trionfo della banalità.
Ora, non abitando tutti a Cervia e non avendo tutti a disposizione una diga in cui annegare la propria infelice rivolta contro la dittatura della notizia-non notizia, è chiaro che la nostra insurrezione dovrà trovare altri sbocchi (possibilmente pacifici e, ancor meglio, senza mettere a repentaglio la propria vita). Premesso che leggere ilsussidiario.net è già un ottimo antidoto di partenza, lasciamo ovviamente alla fantasia e all’investigazione dei nostri lettori trovare altri rimedi. Intanto vi proponiamo tre notizie di cui vale la pena, tre strilli da prima pagina con rimando chissà dove, tre tagli alti ritagliati da quotidiani e periodici recentemente usciti in edicola. Il primo strillo conferma quanto siamo ligi al nostro dovere di scribacchini scanzonati; la seconda notizia va segnalata perché è molto… napoletana e capricciosa; l’ultimo ritaglio ve lo porgiamo da modesti salvatori della patria (potestà).
Le formiche fannullone. Il lavoro cosiddetto “di fatica” perde un mito. Uno studio pubblicato dalla rivista Behavioral Ecology and Sociobiology e ripreso dal sito di Science, proverebbe che anche le colonie di formiche sono piene di fannulloni. Solo il 2,6% lavora alacremente, mentre il 71,9% rimane inattivo almeno metà del tempo, e addirittura il 25,1% non lavora mai. Non è chiaro né il motivo, né una così alta percentuale di Fsf (Formiche Scansa-Fatiche). Tra le teorie più accreditate, la presenza, calcolata intorno allo 0,4% in ogni formicaio, di un agguerrito gruppo di particolari formiche rosse, che i mirmecologi hanno ribattezzato con il nome scientifico di Susannae Camussae: sindacaliste che vorrebbero abbattere la monarchia e passare alla repubblica imenottera, garantendo alle formiche operaie le 35 ore di lavoro settimanale, il diritto alla pausa caffè e l’istituzione delle baby pensioni. Si attendono sviluppi. E le cicale, nel loro cicaleccìo, gongolano.
Il robot sfornapizza. Si chiama RoDyMan, mica Gennaro o Ciro, che forse gli sarebbero calzati a pennello. Si tratta del primo robot in grado di stendere l’impasto della pizza, condirlo, cuocerlo, girandolo pure dentro il forno. Frutto degli studi di un team di ricercatori dell’Università Federico II di Napoli, potrebbe diventare il simbolo di un nuovo rapporto tradizione-innovazione che la città del Vesuvio vorrebbe mostrare al mondo intero, unendo in un unico afflato automazione, gastronomia, arte e cultura. Quali sono stati i motivi che hanno spinto seri studiosi in questa ricerca, che si è spinta così avanti, raggiungendo risultati impensabili sino a qualche anno fa? Uno di questi scienziati, che ha voluto mantenere un rigoroso anonimato, ci ha così risposto: “Mannaggia, nun se tene tanta voglia e’ faticà. Accussì, si Roddy va bbuone (se RoDyMan funziona) e fa il bravo uaglione, vurria aprì ‘na pizzeria cu’ tutte quante (insieme ai miei colleghi). Tant’a faticà ce pienza Roddy!“. Se son margherite, fioriranno!
Contro il phubbing. Molti tra voi non la sapranno di certo, ma dicasi phubbing l’uso e l’abuso, lo smanettamento e la digitazione smodata del proprio cellulare in presenza di interlocutori, che non si ha il buon gusto di guardare negli occhi durante una conversazione a due, intenti come si è a spedire messaggi uozzappici o di altra natura e tenore. Una categoria di persone, quella dei phubber, che annovera molti vip: da Elton John e David Furnish (per la cronaca, il signor e il signor John), da Victoria Beckham al rapper Jay-Z, da Stefano Bettarini (l’ex della Ventura) a tutte quelle attricimodellevelineequantaltro che sono sempre lì con lo smartphone in mano. Dalle nostre parti (intendiamo dire non tanto in Italia, quanto nelle nostre due famiglie comicastriche, ognuno la sua, ma stesso stile “pappùt-mammùt-figliùt”) state pur certi che non si pratica il phubbing, né tantomeno ci faremo propugnatori (è veramente accaduto in Australia) di una campagna anti-phubbing per eliminare, magari prendendoli in giro, “i tossicodipendenti da telefonino”. Anzi, a qualche genitore che si ritrovasse il pischello cellulare-dipendente, suggeriamo un rimedio semplice, da noi ampiamente sperimentato, peraltro vecchio come il mondo, al quale, per una forma migliore di impatto sul mercato, si potrebbe dare una veste nuova, coniando – come è ormai consolidata abitudine al giorno d’oggi – un simpatico neologismo: fresco, giovanilistico, fashion, di facile ed efficace impatto, comprensibile a tutti, transgenerazionale, naturalmente glamour. Chiamiamolo… incazzing. Vedrete, funzionerà!