In una fredda e isolata comunità islandese, l’allevamento dei montoni rappresenta la principale forma di sostentamento. Anche la vita dei fratelli Gummi (Sigurjònsson) e Kiddi (Jùliùsson), come prevedibile, ruota attorno agli animali in questione, dipendenza esacerbata dal fatto che tra i due fratelli le comunicazioni sono ridotte al minimo (affidate peraltro a un cane, che fa la spola dall’uno all’altro fratello), e che, se anche così non fosse, i rapporti umani nelle campagne d’Islanda non sono esattamente all’ordine del giorno. Un giorno, però, l’emergere di una malattia infettiva che colpisce il cervello degli ovini costringe la comunità a fare una scelta: eliminare il bestiame, oppure ribellarsi alle direttive nel tentativo di preservare le proprie tradizioni.
Contrariamente a quanto le premesse possano suggerire, Rams non affronta, se non tangenzialmente, le dinamiche sociali all’interno di una piccola comunità. Lo sguardo di Grìmur Hàkonarson – non a caso regista di documentari e corti ancora prima che di lungometraggi – è puntato esclusivamente sui due casolari abitati dai fratelli, così vicini eppure così distanti. Il contrasto tra città e campagna, la tragica vulnerabilità degli allevatori, l’attaccamento alle tradizioni, sono tutti spunti tematici che il regista non sviluppa mai fino in fondo, relegandoli sullo sfondo di una storia delicatamente intimistica.
Anche i montoni – o capre, o arieti; mi perdoneranno gli esperti di ovini – che pure danno il titolo al film non sono altro che un MacGuffin, un espediente per far procedere la trama mentre si vuole raccontare altro. E questo altro è, essenzialmente, il rapporto tra due fratelli divisi da una coltre di ghiaccio e da chissà che avvenimento passato.
Nel mettere in scena il suo film (che, ricordo, ha vinto il primo premio nella sezione Un Certain Regard a Cannes), il regista si è fatto giardiniere, divertendosi a sfrondare senza pietà quanto di superfluo avesse inavvertitamente aggiunto. Il risultato è un nudo scheletro, un’unità minima così essenziale da non ammettere sintesi o riduzioni. Tante sono le domande e le curiosità lasciate in sospeso, ma il nucleo del film – quello solido, temprato dal vento e dal gelo dell’Islanda – non necessita di altro per stare in piedi.
Rams affronta l’incomunicabilità tra gli esseri umani senza ambire all’universalità, ma, anzi, concentrandosi sul particolare a tal punto da rischiare la perdita dell’interesse. È questo l’unico, grosso problema di Rams: il non essere un film per tutti, che rifiuta con forza la tendenza a condire i film con una pluralità a volte sovrabbondante di tematiche. Caratteristica, questa, che è forse il punto di forza del film, volendo ribaltare la prospettiva.
Al di là dei gusti personali, certo è che Rams è un film solidissimo, lento e intenso, impreziosito da due interpretazioni che sarebbe riduttivo definire “ottime”. La spettacolarità è bandita, e a emergere sono soprattutto gli sguardi degni del migliore cinema muto. Per avere un quadro completo del film si aggiunga infine una sottilissima vena ironica che permea le immagini. Sono tutte queste quasi impercettibili variazioni di tono, quindi, a rendereRams più di un semplice film sui montoni. O capre. O arieti.