L’Expo ha chiuso i battenti. Confessiamolo: a noi milanesi un po’ ci dispiace. Ma, dopo gli ininterrotti “serpentoni” umani che hanno invaso ogni giorno, per ben sei mesi, cardi e decumano, ora a scorrere – possiamo dir così – sono solo i titoli di coda. A proposito di code: quelle chilometriche dell’Expo, ordinate e con la gente paziente in fila, sono state scrupoloso oggetto di studio di molte università inglesi; al di là della Manica, infatti, ancora non si capacitano dell’imperturbabile e quasi gioiosa calma, della compassata flemma in perfetto british style, con la quale il variegato popolo dell’Expo, con buona percentuale di nostri connazionali, ha saputo far fronte alle lunghe attese per poter entrare nei padiglioni della manifestazione internazionale. Né si sono manifestati, dall’attenta osservazione delle immagini dell’Esposizione trasmesse dalla Bbc, scavalcamenti di sorta o furbate temerarie stile “portoghesi allo stadio”. Sicché a Londra dovrebbero farsene una ragione: stavolta – possiamo affermarlo con orgoglio -, gli inglesi, li abbiamo messi in riga. Zitti e pedalare!
Ma non divaghiamo troppo. “Chi ha tempo non aspetti tempo”, è il motto del Commissario unico delegato del Governo per Expo Milano 2015, Giuseppe Sala. Da ieri, infatti, sono iniziati i lavori di smontaggio dei padiglioni e le varie imprese pronte alla bisogna si sono ordinatamente già messe in fila (all’Expo ormai è un must), aspettando il proprio turno. Eppure, dopo aver retto gagliardamente all’assalto di oltre 21 milioni di visitatori giunti a Milano da ogni dove, gli organizzatori mai si sarebbero aspettati di dover fronteggiare un’altra ondata, non meno numerosa ed esigente, una calata forse inaspettata, che comunque metterà simbolicamente a ferro e fuoco la riqualificazione della zona, una pacifica invasione che però darà spessore, significato, assistenza, utili consigli, autorevoli commenti e chissà cos’altro ancora.
Avete mai sentito parlare degli “umarèlls”? Nooo? Chi sono, dunque? Ad aiutarci, come al solito, il nostro Zingarelli, un vocabolario che sa tante cose perché le ha rubacchiate qua e là in giro per il mondo. “Umarèlls è un termine bolognese che si può tradurre con un ben più comprensibile sostantivo: ‘ometti’. Sta a indicare tutti quei pensionati che, avendo tempo a disposizione e giornate completamente libere da impegni, decidono di sovraintendere, in maniera non richiesta, perciò del tutto spontanea, alle fatiche di coloro che invece di cose da fare, spesso pesanti e a volte complesse, ne hanno davvero tante. L’umarèll – è sempre lo Zinga che pontifica – ha tante passioni: adora i lavori stradali, ama le ruspe, vuole bene alle gru (non quelle a due zampe…), è affezionato ai cingolati in generale, si diletta a guardare le auto che eseguono manovre di parcheggio difficoltose, è un assiduo frequentatore di negozi di ferramenta, cantine e garagg (in lingua umarell, il garage). L’umarell, anche nella massa, può essere facilmente identificato: busto un po’ sporgente per vedere meglio quel che l’operaio al lavoro sta facendo, mani dietro alla schiena e mimica facciale che oscilla tra la fissità di un Buster Keaton e la gommosità di un Jim Carrey: senza proferìr parola, l’umarell può esprimere perplessità, severità, quando non cupo pessimismo sull’andamento dei lavori. Quella degli umarèll non è un’usanza solo italiana: in Giappone, per esempio, ci sono i cosiddetti ‘maestri del tè’. Così chiamati per la loro facilità ad attaccare bottone, sono considerati, nel paese del Sol Levante, dei veri e propri ‘personal trainer della confidenza’. Ma cosa c’entra il tè, mi chiederete voi? Beh, per fare conoscenza con lo sconosciuto avventore, sono adusi a ripetere sempre le stesse, ossessive domande: ‘Tè, quanti anni hai?’, ‘Tè, ma da dove vieni?’, ‘Tè, ma non ci conoscevamo mica, da giovani?’. Come si spostano gli umarèll? A piedi? In bici? Certo, ma non solo. Se il cantiere che interessa loro vigilare è molto lontano, a organizzare i loro spostamenti è una società di trasporti specializzata, l’americana UPS (Umarèll Parcel Service)”.
Nell’attesa, dunque, che un considerevole flusso di umarèll provenienti dai cinque continenti si concentri nella zona di Rho-Pero, i lavori di smontaggio sono già iniziati. E non tutto sta filando via liscio. Per esempio, un bel problema è rappresentato dal Padiglione Italia. Dove si potrebbe ricollocare, tenuto conto che incorpora a tutt’oggi una coda (di gente che ha pagato regolare biglietto e che magari ha preso pure le ferie per entrarvi) calcolabile intorno ai 6-7 giorni? In base ad alcune indiscrezioni, la società Autostrade d’Italia ne avrebbe già richiesto la presenza, dal 1° agosto 2016 fino a Ferragosto, per il tratto Milano-Firenze-Roncobilaccio. Il Padiglione Italia dovrebbe seguire passo passo (presumibilmente a passo d’uomo) i vacanzieri in coda ai caselli. Anche le Poste ne avrebbero fatto richiesta, così chi si ritrovasse già in coda per una raccomandata, potrebbe allungarla, ma in maniera del tutto gratuita, per visitare la splendida architettura a forma di nido. Se volete, il classico: paghi uno, prendi due, che riscuote sempre successo. L’ormai ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, ora libero da impegni politici e autoreinventandosi commissario di se stesso, si è proposto invece di trasferire il Padiglione Italia all’estero, inventandosi un tour mondiale, forte dell’esperienza dei suoi frequenti viaggi da primo cittadino dell’Urbe in tutto l’orbe terracqueo.
E l’Albero della Vita, ingegnosa struttura di acciaio e larice, con i suoi 7 chilometri di led? Taluni hanno suggerito di trasformarlo in una comunissima, ma assai originale, giostra, del tipo “catene e seggiolini”, quella che in gergo – con raffinato francesismo – viene chiamata “calcinculo”. E il Padiglione Zero, quello senza zuccheri? Quello rimarrà sicuramente a Milano, destinato a ospitare, come prima convention, il CoMoDiNu (cioè, il Congresso Mondiale dei Dietologi e dei Nutrizionisti).
Proseguendo nel nostro Umarèll-tour, si segnalano rumori alquanto inusuali al padiglione dell’Indonesia: 12 muratori bergamaschi, calati direttamente dalla Valle Cavallina, sono stati incaricati di smontarlo sin dalle fondamenta. Alla vista delle istruzioni, scritte in caratteri sconosciuti, le loro imprecazioni, in stretto patois orobico, sono state scambiate – dagli addetti del padiglione dell’arcipelago asiatico – per liriche beneauguranti. Ne è sorto un improbabile gemellaggio tra i paesi di Cenate Sopra e Cenate Sotto (Comuni che ben si prestano al tema dell’Expo) con le città indonesiane di Ambon (paese di grandi predicatori) e di Padang (città amministrata da una forza politica locale molto ben radicata, la Leg Padang).
Gli umarèll rossocrociati sappiano che i lavori al Padiglione elvetico fervono alacremente. C’è un frenetico viavai attorno al cuore della mostra, vale a dire il modello delle Alpi svizzere in scala 1:25.000, scolpito in una roccia metamorfica chiamata gneiss: ormai è certo che tornerà con tutte le sue 22 tonnellate di peso alla ditta ticinese che lo ha costruito. Il motivo? Il proprietario vuole che i suoi operai lavorino sempre respirando aria salubre e ascoltando le caprette che fanno ciao-ciao alla piccola Heidi.
Ma a preoccupare di più gli organizzatori e le ditte di trasloco pare che sia il Padiglione di Babele: smontarlo è veramente un casino, tutti vogliono dire la loro (e gli immancabili umarèll non si tirano certo indietro), il vociare continuo non aiuta alla riflessione, né all’azione.
Infine, un fitto e tremendo mistero avvolge il destino del dopo-Expo: che fine faranno le mascotte? Essendo verdure di peluche, finiranno in un minestrone… ricco di fibre naturali? O faranno quattro salti in padella… divertendosi da pupazzi?