C’è una cosa, tra le varie, che il cinema italiano commerciale – o per dirla con termini contemporanei mainstream – ha smesso di fare. Guardare la realtà. E non attraverso i filtri del cinema civile, d’impegno o politico come nella stagione dei Rosi e dei Petri, ma attraverso le strutture del dramma o del genere. A guardare a un cinema popolare in cui la realtà non è un pretesto ma l’intera posta in gioco ci pensa Stefano Sollima, che dopo i successi con ACAB e le serie tv “Romanzo Criminale” e “Gomorra” torna al cinema per riportare in immagini un altro romanzo di Bonini e De Cataldo, ovvero quel “Suburra” che scoperchiò il verminaio capitale con molti mesi di anticipo rispetto alle inchieste.
Il film ruota attorno alla costruzione di una nuova Las Vegas vicino al litorale e ai membri che ne bramano la costruzione e i guadagni: un politico che però ha sul groppone la morte di una prostituta, un vecchio fascista che gestisce l’economia romana con metodi criminali, la malavita rom e due scalcagnati criminali di Ostia, un pr deciso a svoltare la propria posizione economica e sociale. Una rete di personaggi lontani che passo dopo passo si avvicineranno, a 7 giorni da un’apocalisse politica e religiosa.
Sullo sfondo, infatti, la sceneggiatura di Stefano Rulli, Sandro Petraglia e gli autori del libro, pone in un corto circuito due eventi davvero apocalittici dell’Italia degli ultimi anni: le dimissioni da premier di Berlusconi – che nel 2011 lasciò il parlamento tra urla e caroselli, come una liberazione – e quelle di papa Ratzinger, nella realtà avvenute 18 mesi dopo, ma che servono a creare un tessuto connettivo tra politica, alti prelati, economia e criminalità per questo noir in cui le strutture di genere si sposano ottimamente con l’approccio inquisitorio del libro.
Sollima ambienta tutto il film in una Roma notturna e quasi sempre battuta dal temporale, in cui come l’acqua battente fa ribollire le fogne tirando fuori a galla il marciume, così Suburra scava sotto la realtà e ne fa emergere i segni, quei tratti che il libro e la sceneggiatura hanno codificato sotto nomi allusivi, ma che oggi riusciamo a leggere chiaramente, dando corpo e spessore alle ipotesi. Il regista è bravo a sfruttare l’alchimia tra romanzieri e giornalisti e se ne serve per realizzare un film che è un affresco trascinante vestito da film nero, in cui le dinamiche del polar francese e del poliziottesco si sposano con vigore.
Un film energico, pieno di forza corrusca, di eccessi e carica espressionista che però Sollima sa controllare e gestire con talento dando tocchi di sotterraneo lirismo (Numero 8 che disegna la futura Las Vegas dal vetro di casa, Samurai alle prese con la madre) a un film pre-apocalittico che pare quasi un monito all’incapacità (all’avversione?) di leggere i segnali che la cronaca ci stava dando.
Suburra riesce quindi a raccontare, descrivere e analizzare la realtà e il sotto-strato di Roma, con mezzi rumorosi e di grana grossa forse, ma anche con assoluta padronanza di mezzi, ritmi, tempi e gesti cinematografici, confermando Sollima come degno erede del padre (Stefano, da poco scomparso), cineasta come ce ne sono pochi, forse nessuno oggi e anche direttore di attori da encomiare: guardare cosa è riuscito a tirare fuori dal duo Alessandro Borghi/Greta Scarano per credere.