Il nono, penultimo appuntamento con la filmografia di Woody Allen è all’insegna di un film che ne è la summa più sincera, e che ha permesso anche alle “nuove generazioni” di avvicinarsi al genio newyorchese. Basta che funzioni mescola sapientemente risate e riflessioni, “pancia” e cervello, in una sintesi alchemica che, se non raggiunge la perfezione, sicuramente le va vicino. 



Dopo una carriera che copre quasi mezzo secolo e una quarantina abbondante di film all’attivo, qualsiasi regista avrebbe appeso la macchina da presa al chiodo, o tutt’al più si sarebbe limitato a vivere della rendita dei propri capolavori passati. La storia del cinema è piena di registi che, dopo una manciata di capolavori, precipitano inesorabilmente (e naturalmente, aggiungerei) in una sequela di pellicole mediocri. Ma questo non è il caso di Woody Allen, che alla venerabile età di 74 anni, nel 2009 sforna quello che può ragionevolmente essere considerato il capolavoro del nuovo millennio. 



Basta che funzioni è la frase che racchiude la filosofia di Boris (Larry David), cinico uomo di mezza età con un quoziente intellettivo pari al proprio disprezzo per il mondo. Gli ingranaggi iniziano a muoversi quando Boris, chiara caricatura dell’Allen più nichilista, incontra Melodie (Evan Rachel Wood), ventunenne svampita e scappata di casa che vede in lui un “guru”; lei finisce per trasferirsi a casa sua, e i due iniziano una convivenza assolutamente esilarante e ossimorica. 

Boris è Allen, e Allen è Boris. Se Helen Hunt ne La maledizione dello scorpione di giada non faceva sentire la mancanza della Keaton, Larry David può essere ragionevolmente definito il migliore protagonista alleniano dopo Allen stesso. Non solo ne condivide la visione del mondo, l’ipocondria e le paranoie, ma il suo volto arcigno gli permette di esprimere appieno tutta quell’ondata di odio, pessimismo e nichilismo che il volto di Allen, così fortemente caricaturale, finiva per stemperare nella risata. 



Il rapporto tra lui e Melodie sembra voler ricalcare da lontano quello tra Woody Allen e Mira Sorvino ne La dea dell’amore (1995). Quella che nel film del ’95 è una prostituta – una delle tante presenti nei suoi film di fine anni ’90, basti pensare a Harry a pezzi – diventa qui una giovane ingenua e sognatrice, ma lo “scontro generazionale” trasportato nell’ambito della convivenza è comune a entrambe le pellicole. 

Con Basta che funzioni – cosa più importante – torna l’Allen dei vecchi tempi, ovvero il cinico e diretto monologhista che, rivolgendosi direttamente ai suoi spettatori, sproloquia sui massimi sistemi e sciorina massime da enciclopedia. Dietro la maschera di Boris Yellnikoff, Allen può riproporre alcune trovate che non utilizzava massicciamente dai tempi di Io e Annie; e, sempre grazie alla maschera, può permettersi alcune libertà in fase di scrittura. Ciò che ne tira fuori è una sceneggiatura divertente e brillante, tanto che alcuni tra i più celebri monologhi di Boris sono ormai entrati nell’immaginario collettivo alla pari del prologo di Io e Annie

In sostanza, Basta che funzioni non potrà non piacere a chi è affezionato a un certo Allen, quello del decennio a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. D’altro canto, però, l’aver dato la parte del protagonista a un altro attore permette di avvicinarsi e apprezzare la pellicola anche a chi, per un motivo o per un altro, mal sopporta il classico umorismo del regista newyorchese. Che si sia fan o meno, insomma, Basta che funzioni è un film imprescindibile.