Fare zapping in televisione, oggi, significa anche essere bombardati da immagini di cucine scintillanti e piatti da nomi (spesso) impronunciabili. Tartare, tapas e contorni sono solo alcune delle prove che decine e decine di aspiranti cuochi devono affrontare nella miriade di talent show a tema culinario. Era solo questione di tempo, quindi, prima che un produttore lungimirante cavalcasse l’onda del successo e decidesse di proporre lo stesso tema in salsa cinematografica.
Adam Jones (Bradley Cooper) è uno chef in pieno stile Gordon Ramsay, ambizioso, senza scrupoli, e con un obiettivo ben fisso nella mente: guadagnare la fantomatica terza stella Michelin, punto di arrivo di ogni cuoco ambizioso. Per farlo mette insieme una squadra composta da vecchi amici e artisti del fornello, tra cui figurano Helene (Sienna Miller) e il nostrano Riccardo Scamarcio, seppur in un ruolo tutt’altro che principale. Nel cast figura anche Uma Thurman, anche se, a dirla tutta, il personaggio da lei interpretato compare giusto per il tempo di un insoddisfacente – per durata, non certo per intensità – cameo.
Il sapore del successo(Burnt in originale), diretto da John Wells, è un film sull’ambizione, in un ambito, quello della cucina d’alto livello, spesso menzionato ma poco conosciuto. Dopo la recente performance in American Sniper Cooper conferma il proprio carisma attoriale, e qui riesce a caratterizzare un personaggio dominato dalla sete di successo, con alle spalle un passato turbolento. Il paragone con Ramsay, celebre volto di “Masterchef”, non è campato per aria: chi conosce il personaggio non faticherà a trovare in Cooper la stessa violenta schiettezza nel rapporto con i sottoposti, ed è palese che il regista abbia voluto strizzare l’occhio al medesimo tipo di pubblico.
È l’ironia, oltre all’ambizione, a caratterizzare Jones, e tutta la prima parte del film è permeata da un brio comico da non sottovalutare, soprattutto se lo si confronta con la qualità media delle produzioni comiche odierne. Nella seconda metà il tono si fa leggermente più serioso, in linea con l’evoluzione psicologica e professionale del protagonista. Nulla di troppo profondo, sia chiaro, ma proprio per questo il film riesce a scorrere con piacevole fluidità fino alla fine.
Altro discorso, semmai, è la regia di Wells. Va bene voler fare un film sul cibo, ma all’ennesima inquadratura sul filetto di rombo saltato in padella viene voglia di abbandonare la sala e sollazzarsi in qualche ristorante. Sempre che nel frattempo non sia insorto il mal di testa, visto che il regista sembra voler bombardare la retina dello spettatore con fotogrammi fulminei e sconnessi, quando non addirittura indecifrabili. Manca, insomma, quella posatezza formale, quella calma zen da grande regista – capace, all’occorrenza, di trasformarsi in furia – che avrebbe sicuramente giovato a una sceneggiatura per certi versi brillante.
A conti fatti, insomma, la bilancia non pende né da una parte, né dall’altra. A meno che non sia ora di cena, s’intende: in quel caso il film guadagna punti, e può essere una valida alternativa all’aperitivo.