Una parentesi disastrosa della storia Argentina è quella che, dal 1976 al 1983, viene ricordata come “Processo di riorganizzazione nazionale”. Preso il potere con un colpo di Stato nel marzo del ’76, il generale Videla instaura un durissimo regime militare, a cui segue un’altrettanto pesante repressione del dissenso peronista. È in questo clima di frattura e oppressione che muove i primi passi Jorge Mario Bergoglio, il giovane gesuita destinato a diventare Papa con il nome di Francesco. 



Durante la lunga gestazione di Chiamatemi Francesco, i primi ideatori del progetto Pietro Valsecchi e Daniele Lucchetti (quest’ultimo anche regista) si sono posti l’obiettivo di raccontare il passato di un uomo visto e ammirato da molti come riformatore della Chiesa cattolica; un compito non facile, data la quantità di testimonianze più o meno veritiere sul suo passato che l’elezione a Papa ha contribuito a moltiplicare. È da una full immersion in Argentina, quindi, alla ricerca di luoghi e persone venute in contatto con l’ex vescovo ausiliare di Buenos Aires, che il film ha preso forma.



La vita di Bergoglio viene ripercorsa dagli anni Settanta fino al momento dell’elezione in San Pietro, e per rendere più credibile lo scarto temporale nel suo ruolo si susseguono Rodrigo de la Serna e Sergio Hernández. Non solo loro due, ma l’intero cast è di origini sudamericane, e questo assume rilevanza nel taglio che Lucchetti ha voluto dare alla sua storia: non un’agiografia mitizzata, ma un’inchiesta quanto più accurata possibile, nonostante inevitabili e giustificabili omissioni. 

Le vicende politiche e sociali dell’Argentina hanno svolto un ruolo cruciale nella formazione di Bergoglio, e il film dà loro lo spazio che si meritano. Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare da una simile pellicola, spesso la macchina da presa si stacca da Bergoglio per soffermarsi sugli orrori della dittatura, e c’è il tentativo di dare alla dissidenza oppressa una voce a sé, non eclissata dall’ingombrante statura del protagonista. 



È qui che gli ingranaggi iniziano a scricchiolare, perché, se l’ultima metà del film scorre piuttosto compatta, l’estrema frammentarietà di vicende e personaggi della prima parte ne mina profondamente il ritmo. Si può forse spiegare (ma non giustificare) il fatto tenendo presente le strategie di produzione, le quali vorrebbero che il film fosse trasmesso sulle reti nazionali diviso in quattro parti, alla stregua di uno sceneggiato. 

A spiccare, però, è chiaramente la figura di Jorge Bergoglio, la cui fede non vacilla né di fronte ai soprusi militaristici, né tantomeno davanti alle richieste degli amici e di una ragazza. Il film snocciola una sequela di orrori a cui il gesuita risponde con una fermezza granitica, tanto che parlare di “crescita del personaggio” sarebbe fuorviante. 

C’è la volontà – quella sì – di soffermarsi sugli aspetti più irruenti e “oscuri” del personaggio per dare di lui un’immagine più realistica; la scelta di raccontare Bergoglio dall’esterno, invece, con un apparente distacco emotivo (l’unica volta in cui lo vediamo piangere è in un’inquadratura in campo lungo), più che a effettive scelte di messa in scena sembra imputabile al pudore, a una sorta di timore reverenziale nei confronti di un Papa ancora in vita che, se soddisfa il fedele, non si confà al taglio oggettivo, sì, ma anche profondamente drammatico che il regista ha voluto dare al resto del film.