Ai più esperti di pittura contemporanea il titolo avrà ricordato l’omonimo quadro di David Hockney. È un dipinto caldo e asettico, minimale nel suggerire un tuffo in piscina sotto un sole che parrebbe californiano. Ed è proprio questo senso di placida ambiguità vacanziera che Luca Guadagnino (Melissa P.; Io sono l’amore) vorrebbe evocare nella sua ultima fatica.



A Bigger Splash, remake dichiarato del francese La Piscine (1969), vede la rockstar Marianne (Tilda Swinton) e il compagno Paul (Matthias Schoenarts) concedersi una meritata vacanza sotto il sole cocente di Pantelleria. Immersi in un idillio di ozio e cicale, i due vengono presto disturbati dall’eccentrico produttore discografico dei Rolling Stones Harry (Ralph Fiennes), con la monoespressiva figlia Penelope al seguito (Dakota Johnson). Ben presto la tranquillità mediterranea viene infranta e, come nella più classica delle dinamiche di coppia, iniziano a riaffiorare verità non dette e passioni represse. Insomma, parrebbero essere in tavola tutti gli ingredienti per un dramma/thriller almeno godibile, se non addirittura coinvolgente. Giusto? Sbagliato. 



È sconfortante, quasi doloroso notare come un film dalle buone premesse riesca a naufragare in una prima metà vuota, ignobile, priva del benché minimo spunto di interesse. Ci si aggrappa, per evitare la deriva dell’attenzione verso altri lidi, alla bellezza austera e rocciosa del paesaggio mediterraneo, oltre a quella (ben più rigida) di Dakota Johnson, che dopo 50 sfumature di grigio decide di esibirsi – lei, ma anche Ralph Fiennes – in un nudo integrale. Si nota lo sforzo da parte del regista di calare il dramma in un’atmosfera inizialmente festosa, carica di sole e sotterraneo erotismo; peccato che nel farlo Guadagnino non abbia compreso la lezione dei grandi maestri del cinema italiano (da Fulci a Lenzi), e più che provocante la Johnson sembri imbalsamata. 



Dopo una prima ora dominata dal nulla più totale, non basta un Fiennes esageratamente sopra le righe e una Swinton affetta da mutismo a risollevare la barca. Guadagnino ci prova comunque con un repentino cambio di tono, ed effettivamente la seconda parte può essere considerata un positivo, benché tardivo, cambio di marcia. Il tono si incupisce, e la trama, che per tutta la prima sembra non voler andare a parare da nessuna parte, riesce a salvarsi per il rotto della cuffia con giusto un paio di scelte azzeccate. 

Rimane, però, una falla insanabile a rendere impossibile ogni tentativo di redenzione: i personaggi sono insopportabilmente piatti, dal primo all’ultimo, tanto da vanificare ogni interesse nei loro rapporti. Si va avanti solo per inerzia, nella speranza (via via più mortificata) che arrivi un deus ex machina a smuovere le acque stagnanti. 

Fischiato a Venezia, dove è stato presentato nel 2015, l’ultimo grande tuffo di Guadagnino è in realtà una rovinosa spanciata sul bagnasciuga; un film camaleontico che, sadicamente, ti premia con una punta di thriller dopo un’ora e passa di vuota agonia.