Come un fungo atomico, è esplosa improvvisamente la necessità di riformare la Rai. Sarà perché prima ci si era occupati di altre importanti riforme, sarà perché non c’è più il Patto del Nazareno, sarà perché l’attuale CdA scade tra breve, e si vuole evitare di prorogarlo. Sta di fatto che la questione irrompe ora fragorosamente nel dibattito pubblico e, come sempre è avvenuto, scatena schieramenti bellicosi, dichiarazioni altisonanti, distinguo e battibecchi politici. 



normale, perché un riassetto del sistema radiotelevisivo non è questione da poco, in quanto riguarda problemi da niente come il pluralismo e problemi altrettanto da niente come la redistribuzione delle risorse pubblicitarie. Il tutto in un momento che definire rivoluzionario, per i media nel loro complesso, è dire poco, con le risorse pubblicitarie che si riallocano in un quadro di complessiva contrazione.



Per moltissimi anni in questo sistema ho svolto diversi ruoli, prima come pubblicitario e anche presidente dell’Associazione italiana agenzie di pubblicità, e poi per nove anni come membro del CdA della Rai (quando il CdA di 5 membri era una specie di amministratore delegato collettivo), e poi ancora come amministratore delegato di Rainet. Posso così dire di aver conosciuto assai da vicino le peculiari caratteristiche della più grande azienda editoriale audiovisiva del Paese: che, nel bene, possiede tutti gli asset per essere o diventare una moderna impresa di servizio pubblico, e, nel male, soffre di tutti i difetti di una lottizzazione che ha provocato innumerevoli striature di appartenenza politica in ogni funzione, ogni direzione, ogni struttura editoriale e tecnica che dir si voglia. 



A seguire il dibattito che si sta infiammando, l’obiettivo del contendere appare innanzitutto costituito dall’urgente proposito di costruire una nuova governance, “in grado di tagliare il cordone ombelicale tra la politica e l’azienda”. Sicuramente si tratta di un intento assai lodevole, che però ha il non indifferente difetto di mettere il carro davanti ai buoi. Perché la prima questione da affrontare non è questa, e non può esserlo, in quanto è semmai l’applicazione pratica di una decisione che sta molto più a monte: lo stabilire se oggi serve al Paese un’azienda radiotelevisiva di servizio pubblico, che cosa debba fare, come, con quali dimensioni e con quali risorse. Se la risposta è sì, solo di conseguenza occorrerà studiare la governance adeguata che disciplini anche il rapporto tra questa azienda e la politica. Ma prima ancora sarà il caso di esaminare lo stato in cui è stata ridotta la Rai, proprio dalla politica: una moltitudine di dipendenti con un rapporto diretto con i vari partiti, un accumulo di rendite di posizione che vanno dall’ostruzionismo a ogni tentativo di innovazione tecnologica, sia per quanto riguarda i mestieri più operativi (come i montatori, ad esempio), sia per quanto riguarda i giornalisti (che nei broadcaster stranieri si montano spesso i propri pezzi già da lungo tempo), sia per quanto riguarda i vertici editoriali, principalmente interessati al mantenimento dell’audience consolidata, fatto che, essendo quest’ultima costituita in larghissima parte da ultrassessantacinquenni concentrati al sud, definisce già di per sé i confini del prodotto. 

Degli 11.000 dipendenti e dei 3.000 precari, ben 1.800 sono giornalisti, di cui 800 nella testata regionale, e molti sono nelle sedi locali che attualmente la Rai deve tenere aperte per legge. Ci sono molte attività che si fanno solo perché si sono sempre fatte (mi domando perché ogni mattina ci dobbiamo sentire ripetere come una litanìa sempre uguale  “code sulle tangenziali” o “sul raccordo anulare”, quando l’unica vera notizia sarebbe “traffico inopinatamente scorrevole sul raccordo” o simile!). 

Battute a parte, alla domanda se serve oggi un servizio pubblico, io risponderei di sì e per molti motivi: checché ne dicano illustri maitre à penser, non si può negare che l’Italia – soprattutto al sud – è in condizioni poco più che post belliche, per di più con una grande crescita di analfabetismo di ritorno. C’è una grande necessità di alfabetizzazione culturale e informatica di anziani e anche di giovani, che oggi può passare grazie all’interesse per la crossmedialità. C’è ancora da cogliere un’opportunità da sempre mancata: quella che un tempo era Rai International, e che non dovrebbe solo parlare agli italiani all’estero mandando in onda gli avanzi della programmazione nazionale, ma mostrare l’Italia al mondo proponendo i nostri migliori asset (moda, enogastronomia, bellezze naturali, arte, cultura, auto, lusso, tecnologia), così da costituire un grande supporto all’esportazione e alla fama del brand Italia (e si tratterebbe di programmi che potrebbero essere tranquillamente finanziati da product placement…). 

Chi ritiene non essere più possibile un servizio pubblico perché oggi ci sono troppi canali dove l’audience si può disperdere, ha un concetto antico e coercitivo dell’educazione (oddio che parola ho osato pronunciare…). Come a dire, finché c’era un solo canale, era facile indottrinare i topini chiusi in una solo gabbia, che oggi invece possono sciamare da tutte le parti… Allora era facile essere “pedagogici”, ma oggi… (la finissimo una buona volta con questo terrore della tv pedagogica. Ogni attività audiovisiva lo è, che lo si desideri o meno! Lo sono anche i film che su Rai 4 mostrano come si violentano e si squartano le donne, e non solo in orari notturni!). Eppure un tempo i topini nella gabbia ci stavano volentieri: non si può negare quanto fosse meglio Studio Uno se messo a confronto con tanti sabati sera di adesso, per non parlare della tv da coatti di “Made in sud”! Era meglio perché – facendo i confronti – per fare un’ora di programma ci si impegnava giorni e giorni sotto la meticolosa direzione di Falqui, mentre oggi si comincia poco prima e il sabato si è già in onda per quattro ore. Tutto cotto e mangiato: ma se non sei Fiorello o Proietti o Benigni…non ce la fai proprio! 

Così la questione è una sola: o si cerca di fare audience con espedienti intelligenti, spettacoli divertenti e di classe, programmi colti capaci di interessare chiunque, sinceramente “popolari”, oppure ci si rassegna alle facili e grossolane battutacce di Made in sud e agli sfruculiamenti nei misteri degli assassinii per solleticare le viscere dei pensionati sprofondati sul divano (i famosi couch potatoes, così definiti dagli analisti dei media americani), combattendo con la più retriva tv privata che dovrebbe avere come unico scopo l’audience, e ogni tanto mostra invece di saper fare quando vuole anche il servizio pubblico. Oppure si fanno programmi culturali notturni riservati a pochi addetti ai lavori.

Non c’è nemmeno bisogno di indire troppi seminari per individuare la missione giusta per un moderno servizio pubblico: sta già scritta in un documento dimenticato in un cassetto. Fu approvato dal consiglio presieduto da Zaccaria di cui facevo parte, su mia proposta, durante un CdA tenuto a Milano nel 1999. Recita al primo punto:Elevare il senso critico del Paese. 

Se c’è una cosa di cui ha bisogno un Paese ancora ripiegato su se stesso è proprio questa capacità di migliorare il proprio senso critico, per saper affrontare le sfide e la competizione, riacquistare la dovuta autostima in una grandiosa tradizione, tornare a crescere con la coscienza delle proprie capacità e dei propri limiti, sapendo riconquistare all’Italia il posto che le spetta nel mondo. Si eleva il senso critico di un Paese facendo buona e chiara informazione, spettacoli di qualità sotto ogni forma (scenografia, scrittura, regia, luci, fotografia), programmi culturali non solo per addetti ai lavori, ma capaci di interessare e di stimolare chiunque verso l’approfondimento.

Tutto questo non costa più soldi, costa solo più fatica. Richiede maggiore impegno nello studiare nuovi linguaggi e nuove tecniche di comunicazione capaci di conquistare nuovo pubblico e mantenere il vecchio grazie alle opportunità della crossmedialità. Un cambiamento culturale che richiede una guida editoriale forte e competente, capace di visione e di conoscenza dei meccanismi in grado di implementarla nell’azienda.

Una volta fosse accettato questo principio, bisognerebbe capire quali dimensioni dovrebbe avere l’azienda di servizio pubblico. Speculare all’attuale polo privato, quindi con tre reti (più le svariate reti digitali) o con meno reti, magari due, una più generalista e una più colta? Così da rinunciare a un bel po’ di pubblicità e magari a una fetta di canone, obiettivo che piace molto nell’attuale maggioranza (e non solo!)? C’è chi propone di ridurre le sedi regionali, ma occorre cambiare la legge: non va dimenticato però che ovunque nel mondo l’informazione locale (ben fatta, naturalmente) costituisce un gran punto di forza.

Parlando di risorse occorre parlare di costi. Per ridurli non basta la bacchetta magica di accorpare testate e strutture, se non si riduce il personale e non si rieduca quello esistente a fare più attività. E qui nascono i problemi. Avere come la Bbc (a parte i problemi di pluralismo) un solo Tg, significa fare a meno di centinaia e centinaia di persone. Se si volesse seguirne davvero il modello, potrebbero essere molte di più, visto che in Inghilterra il giornalista, nel suo turno di 4 ore deve realizzare da solo i servizi per la tv, la radio e il web! Mentre qui da noi ci sono duplicazioni per lo stesso lavoro in tante strutture diverse. Cedendo una rete, ammesso che si trovi un compratore, si cederebbe poi solo il marchio o anche una fetta di personale editoriale, tecnico e amministrativo? Non è una questione da poco…

È del tutto intuitivo che invece di avere tante reti gestite a fatica con una gran massa di dipendenti e tante duplicazioni di funzioni, sarebbe molto meglio avere due sole reti con qualche rete digitale e il web, da gestire con una programmazione di qualità realizzata da molti meno dipendenti. Ma che si fa di tutti gli altri? Dovrebbe quindi essere la politica, proprio quella che ha fatto crescere a dismisura il plantigrado pubblico, a trovare le soluzioni e le risorse per sistemare questa notevole quantità di esuberi.

Ammesso e non concesso che si sappiano risolvere con una riforma tutte queste non semplici questioni, rimane finalmente il problema della governance. Stiamo assistendo al crescere di diverse ipotesi, proprio nella Commissione parlamentare di vigilanza, che già ora non concordano con la riduzione a due sole testate perché non sanno come si potrebbe esplicare il pluralismo (figuriamoci con una). Verrebbe da chiedersi se non sia il caso di individuare nuovi criteri di pluralismo: ad esempio, manager e direttori capaci di dare spazio a tutte le voci, e non manager e direttori che siano diretti interpreti di quelle voci.

Interporre una Fondazione tra Parlamento e gestione, una delle opzioni in campo, ci porta verso il modello Bbc. Peccato che noi non siamo anglosassoni: chi impedirebbe ai direttori operativi di dialogare poi direttamente con questo o quel politico? Se poi i comandanti della nave rimarranno quelli che con molta abilità in tanti anni hanno saputo traghettarsi da un’era politica all’altra restando sempre sulla tolda di comando, e oggi, come mi raccontano dall’interno, magari da ex berlusconiani di ferro si sono prontamente riscoperti renziani doc, chi impedirà loro di interfacciarsi direttamente con i potenti di turno, come hanno sempre fatto? Al di là di questo problemino, probabilmente è più raccomandabile il progetto di un Consiglio duale più ridotto, che possa avere una presa più diretta sull’azienda, con alcuni membri dedicati ai conti e altri all’aspetto editoriale, il che non esclude certo le possibilità di ingerenze della politica, ma renderebbe tutto più gestibile e più trasparente. D’altro canto, al di là della retorica, non è questo un Paese in cui anche i membri della Corte Costituzionale vengono scelti tenendo conto della rappresentanza di diverse aree politico-culturali? Nemmeno per la Corte si è mai riusciti a tagliare il legame con la politica…

Come si vede la questione è tutt’altro che semplice, perché ha a che fare con il sistema delle risorse nel suo complesso, con un colosso editoriale cresciuto a dismisura per esigenze del tutto esterne, con professionisti spesso addirittura calcificati nelle rendite di posizione, con il non indifferente problema di doversi destreggiare tra ascolti da canone e ascolti da pubblicità. Eppure di risorse in gamba ce ne sono, la vera difficoltà è come riuscire a separare il grano dal loglio e come gestire il tutto non solo dal punto di vista dei conti, ma da quello di una visione editoriale che non si disperda scendendo giù per li rami aziendali. Che deve tener conto del fatto che oggi, momento in cui si parla tanto di story-telling, una moderna impresa di servizio pubblico dovrebbe servire al Paese sapendo intercettare anche con l’intera programmazione (e segnatamente con la fiction) un pubblico giovane da aiutare proponendogli aspirazioni accessibili, che da un lato potrebbero aiutare a trovare finalmente un lavoro e dall’altro aiuterebbero il Paese a rilanciarsi. Stando all’immaginario proposto oggi, si vedono invece soprattutto gourmet e cantanti – e un po’ di carabinieri. 

Gli Stati Uniti sono usciti dalla crisi grazie a quella che è stata definita manufacturing renaissance, mestieri manuali che qui da noi avrebbero molto a che fare con moda, tecnologia, lusso, artigianato, tessile, ma anche con elettricità, falegnameria, idraulica (solo in Lombardia mancano 40.000 tra elettricisti, idraulici e falegnami). Per non parlare della spinta da dare alle ragazze perché si diano a studi tecnico-scientifici…e non bastano per questo i quotidiani volteggi della Cristoforetti nello spazio. 

Chiariamo bene, sono solo alcuni esempi, e poi le aspirazioni possono essere proposte tanto in una fiction come in un talent o in un talk, o persino in un gioco preserale. Ma prima di tutto occorre stabilire con chiarezza la missione di un servizio pubblico che sia utile al rilancio della nazione, e le linee editoriali conseguenti da applicare nell’informazione, nell’intrattenimento, nell’approfondimento culturale. “Elevare il senso critico del Paese” mi pare sinceramente già un buon punto di partenza, se venisse ripreso sul serio. Ma poi occorre stabilire con quale perimetro e con quali risorse l’azienda dovrebbe rinascere, indicando anche qual è il percorso e quali sono gli strumenti per traghettarla nell’era della crossmedialità, il che comporta anche una colossale opera di riqualificazione professionale complessiva. Da ultimo, ma solo da ultimo, viene il tema della governance. Affrontarlo per primo può legittimare la nascita, come si legge dai giornali, dei più oscuri sospetti.

Non indifferente, infine, il tema del Contratto di servizio e della Commissione di vigilanza. L’attuale contiene troppe norme troppo generiche che rimangono sostanzialmente inapplicate. Auspicabile quindi un nuovo contratto con poche norme ma assai cogenti, con parametri verificabili: l’unico modo per rendere efficace un’adeguata vigilanza. 

Concludo con una testimonianza personale: nel ’99, da consigliere Rai, osai rilasciare una intervista a L’Espresso in cui affermavo che la Rai stava diventando una tv commerciale di serie B, e l’allora direttore generale Celli mi scatenò addosso i revisori affermando che stavo facendo un danno all’azienda… Mi pare che oggi siano in molti ad affermarlo, lamentando pure per questo di dover pagare il canone. Ma invertire la tendenza si può: ricordo che insieme al collega Emiliani, pur partendo da sensibilità politiche diverse, sviluppammo un’alleanza in grado di far passare progetti di cultura popolare come La Traviata a Parigi, il Verdincanto, Le grandi arie liriche sottotitolate, e ci battemmo con successo anche per salvare l’orchestra classica di Torino, l’ultima rimasta. A dimostrazione che il pluralismo può significare soprattutto rispetto delle idee altrui e sincera battaglia perché prevalga il bello, il giusto e il vero anche in una trasmissione televisiva, contribuendo a elevare il senso critico del Paese.