Nel suo ultimo film, il pluricandidato agli Oscar Foxcatcher, Bennet Miller riconferma il suo interesse per il genere biografico, già manifestato nel 2005 in un biopic su Truman Capote, che valse un Oscar al compianto Seymour Hoffman. Questa volta, lo spunto viene dall’autobiografia di Mark Schultz, campione olimpico di lotta libera, interpretato da un granitico (per non dire inespressivo) Channing Tatum. La vicenda ruota attorno al suo rapporto con il fratello Dave (Mark Ruffalo), anch’egli wrestler, e al misterioso incontro con John Du Pont (Steve Carell), un eccentrico quando ambiguo milionario appassionato di lotta libera e di birdwatching. Ed è proprio in virtù dell’amore per lo sport, oltre che di motivazioni ben più sottili e oscure, che Mark verrà chiamato a battersi sotto l’ala protettiva del signor Du Pont, capitano del team Foxcatcher.

Il film segue con regolarità gli allenamenti, i successi e le drammatiche cadute del protagonista, con una forte enfasi nel sottolinearne lo sforzo costante, sia fisico che mentale; eppure, a ben vedere, come pellicola sportiva Foxcatcher non è niente di che: la tensione – quella agonistica, almeno – passa in secondo piano, e per tutta la durata del film il ritmo si assesta su un lento andante, lontanissimo dai picchi di adrenalina di pellicole come Rocky, o persino di Million Dollar Baby.

In verità, Foxcatcher può essere considerato un film psicologico, fatto di sguardi impercettibili e di silenzi; mi azzarderei quasi a definirlo “simbolico”, nonché un ottimo esempio di come un regista possa scavare a piacimento all’interno dello spunto biografico, farlo proprio, fino a farne venire a galla gli aspetti più nascosti. Se il film biografico rischia sempre di scadere nel banale e nel superficiale, spesso aggrappandosi a vicende da “lacrima facile”, qui la situazione è completamente inversa: l’introspezione è condotta da Miller con una sottigliezza che rischia di essere scambiata, dallo spettatore poco attento, per mancanza di contenuti. 

Se si cerca di scavare sotto la scorza del “non detto”, di dialoghi volutamente ridotti all’osso e ambigui, si può arrivare a leggere Foxcatcher come un vero e proprio racconto di formazione, una drammatica parabola psicologica attraverso i complessi infantili, l’emancipazione adolescenziale e l’Ombra di junghiana memoria. I personaggi principali, quelli attorno a cui si sviluppa il dramma, non sono altro che grossi bambinoni vestiti da adulti, incapaci di superare i propri traumi e di venire a patti con i propri fantasmi. Lo si vede in Mark, ossessionato dall’invidia per il fratello; ben più evidente, poi, è il rapporto di Du Pont con la madre, una donna distante e insoddisfatta del figlio, e del conseguente svilupparsi, in quest’ultimo, di una capricciosa volontà di autoaffermazione. 

La bellezza delle immagini e l’eleganza registica sono controbilanciate da una certa lentezza e ripetitività, che, tuttavia, non sfociano nella noia grazie a un costante senso di inquietudine e minaccia che il regista, abilmente, riesce a inserire in ogni sequenza; giocando con i silenzi e le allusioni, oltre che servendosi di uno Steve Carell in stato di grazia, Miller si diverte a indagare la psicologia dei personaggi, e a dare così una propria, lucida interpretazione del dramma di Mark Schultz. 

Un film sorprendentemente introspettivo, che riconferma il talento di Miller nel mettere in scena un genere, quello del biopic, che ultimamente tende sempre più spesso ad adagiarsi su uno stile impersonale, sacrificando la poetica del regista – qui invece ben delineata – alla ricerca di facili patetismi.