indubbio che Braccialetti rossi sia diventato un fenomeno, non proprio piccolo, di costume e di televisione. Perché la serie di Rai 1, che domani 15 marzo chiuderà la sua seconda stagione, è tra i pochi prodotti italiani di fiction, a maggior ragione targati Rai, ad aver coinvolto il pubblico adolescenziale che di solito preferisce confrontarsi con talent show o umorismo da cabaret. E invece la serie spagnola adattata in Italia da Sandro Petraglia e dal regista Giacomo Campiotti ha saputo coinvolgere i ragazzi parlando direttamente a loro, senza l’intermediazione di medici in famiglia o genitori cesaroni, ma emarginando via via gli adulti per lasciare campo libero ai ragazzi e dare vita a un teen drama come raramente se ne sono visti di recenti in Italia e nella tv generalista. 

Ed è riuscito a farlo con un linguaggio televisivo più spigliato della media delle produzioni Rai, più curato nell’uso del montaggio e della musica, più comunicativo nei racconti: un prodotto tv a suo modo perfetto. Che con la seconda stagione ha dovuto cercare di cambiare e restare fedele, con lo scoglio delle seconde annate che prodotti simili molto serializzati, ovvero non legati a storie che iniziano e finiscono in una puntata tipo Don Matteo, ma con alcune storie che si svolgono durante le settimane, hanno affrontato spesso perdendo. Vedasi Tutti pazzi per amore. 

Braccialetti rossi 2 come detto cerca di restare fedele alla linea, discostandosi dalla scia dell’originale spagnolo, portando nuovi personaggi e rielaborando i vecchi, cercando di non eccedere con il pathos e di far brillare delle micce di umorismo. Il risultato sembra abbastanza riuscito: il gruppo originale si è rinsaldato, con alcuni dei ragazzi che tornano in ospedale (escamotage in verità un po’ facile), i nuovi personaggi tra amori e rancori hanno fatto il loro dovere – anche se non tutti gli attori sembrano perfettamente amalgamati all’alchimia creatasi – e le storie, pur seguendo schemi consueti, continuano ad appassionare i ragazzi. 

La scelta delle mini-stagioni da 5-6 episodi, anziché la durata classica di 12, ha permesso a Campiotti e Petraglia di concentrare meglio gli archi narrativi e quindi di rendere le storie più compatte, di raccontarle con più attenzione, anche se qua e là si scorge il rischio di fiato corto che possono avere le storie soprattutto sul lungo periodo e resta inevaso un interrogativo interessante: come raccontare storie di adolescenza, di cambiamenti epocali e passaggi con personaggi che potrebbero non arrivare a dopodomani? Tanto che in Spagna, la serie dopo la seconda stagione si è presa una pausa per lasciare crescere i ragazzi: in Italia invece le riprese del terzo ciclo di episodi partiranno quest’estate. 

Il rischio è quello della ripetitività nei meccanismi per appassionare il pubblico: se nel primo finale di stagione moriva Davide, che poi è tornato come fantasma – non un grandissima trovata -, nel secondo è Leo a rischiare di morire. E, inoltre, lascia sempre molti dubbi il modo in cui si trattano le malattie e i malati, non per indagarne il senso all’interno delle psicologie umane, il loro valore sociale, ma come pretesti per scardinare l’emotività del pubblico. Che comunque gradisce e anche molto, anche gli alti bassi qualitativi, in nome di un affetto verso i ragazzi che sa di piccola disonestà e lieve ricatto emotivo (gli attori giovani sono bravi, ma se non interpretassero dei malati gravi, sarebbero così amati?). 

Problemi forse oziosi per i circa 7 milioni di spettatori che domenica si godranno il finale, ma su cui tutti gli altri, autori e produttori in primis, dovrebbero riflettere.