Per riassumere la trama di Vizio di forma ci vorrebbe un trattato, oltre a una considerevole dose di pazienza. Non per nulla Thomas Pynchon, autore del romanzo da cui è tratto il film, è considerato – a ragione – uno degli autori più complessi e caleidoscopici degli ultimi anni. E Paul Thomas Anderson, fedele allo spirito del soggetto, ha confezionato una pellicola altrettanto confusionaria, frammentaria, ma non per questo priva di un certo tipo di coerenza. 

Siamo a Los Angeles, sul finire degli anni ’60. Il movimento hippie è al suo picco, e l’ombra di Charles Manson sta per chiudere nel sangue un decennio fatto di rivoluzioni e paradossi. Larry “Doc” Sportello (Joaquin Phoenix) è un investigatore privato, la cui unica debolezza, oltre alla marijuana, è l’ex fidanzata Shasta (Katherine Waterston), che proprio in virtù del loro ambiguo legame lo spinge a indagare su un miliardario del settore immobiliare, il signor Wolfmann. Neanche a dirlo, Doc si trova presto invischiato in un sottobosco di rapimenti, traffici di droga e personaggi sopra le righe.

La prima cosa che salta all’occhio, avvicinandosi al film, è proprio la mole esagerata e soverchiante di personaggi. La surreale metropoli dipinta da Anderson – una Los Angeles elettrica, animata da insegne al neon e colori fluo anni ’60 – pullula di personaggi bizzarri, da un musicista che è anche, suo malgrado, spia alle dipendenze del Governo, a poliziotti burberi che nascondono un lato affettuoso. 

Seguendo le orme di Pynchon, Anderson prende molto poco sul serio i propri personaggi; si diverte ad abbozzarli, li rende interessanti, salvo poi sbarazzarsene in poche scene. Il che, se sulla carta è un difetto, nell’ottica postmoderna e profondamente decostruttivista di Anderson si rivela, insospettabilmente, uno dei più grossi punti di forza del film.

La decostruzione non si limita a investire i personaggi, ma va a rodere le fondamenta stesse del genere noir. Sportello è sì il tipico antieroe del genere noir, un uomo comune, vittima inconsapevole di eventi più grossi di lui; eppure chiunque si aspetti una rivisitazione pop dell’exploitation americana anni ’50 è destinato a uscire dalla sala con l’amaro in bocca. Innanzitutto, la violenza fisica è ridotta al minimo, e l’azione è praticamente inesistente. Ma ciò che potrebbe infastidire di più è che, se nel noir tradizionale permaneva un seppur sottile fil rouge investigativo che trasformava gli spettatori in tanti emuli di Poirot, qui le indagini passano in secondo, se non terzo piano. 

Il ritmo è volutamente anticlimatico; le rivelazioni sono dosate in modo tale da minimizzare l’effetto drammatico. Ci si sente traditi, almeno finché non ci si rende conto che Vizio di forma sfugge a ogni tentativo di classificazione in generi e sottogeneri, e proprio in questo trae la sua forza.

Se lo si guarda senza pregiudizi di sorta, accantonando per due ore e mezza ogni schema prefissato, ci si rende conto che Vizio di forma è un’esperienza ambiziosa e totalizzante, uno specchio d’acqua in cui ciascuno può riflettersi, e da cui ognuno può pescare ciò che vuole. Come la scrittura di Pynchon, anche lo stile di Anderson può spaventare a un primo sguardo: i personaggi iniziano ben presto a eccedere le capacità mnemoniche dello spettatore medio, e fermarsi a fare mente locale, anche per pochi secondi, significa rischiare di perdersi passaggi potenzialmente cruciali. Non solo: i continui riferimenti alla controcultura dell’epoca e al macrocosmo pop – musica, cronaca nera e allusioni a questa o quella disciplina – rischiano di mandare in crisi anche il più accanito giocatore di Trivial Pursuit.

Enciclopedico, logorroico, ma al tempo stesso molto più abbordabile di quanto sembri, il film sorprende per la sua ironia, per l’atmosfera onirica e psichedelica (merito di una colonna sonora firmata dall’eclettico Jonny Greenwood) e per la sua isterica rappresentazione di una società frammentata, contraddittoria, avviata verso il nichilismo con un sorriso beffardo stampato in faccia.