Se c’è una cosa che il cinema ha sempre fatto, sin dalle origini, è trarre la propria linfa dai capolavori della letteratura. A volte il sodalizio tra le due arti ha prodotto frutti di inestimabile valore, dal Nosferatu di Murnau (ispirato più o meno celatamente al Dracula di Bram Stoker) sino al recentissimo Vizio di forma. Altre volte, invece, il confronto con l’opera cartacea è talmente impari che il film ne esce con le ossa rotte, soffocato dal peso e dalla complessità dell’originale.



Quando ci si confronta con la Divina Commedia, specie su suolo italico, bisogna tenere conto anche di questo: sarò in grado di raccogliere la titanica staffetta del Sommo Poeta? E la risposta, nella quasi totalità dei casi – a meno che non si sia preda di un delirio d’onnipotenza – è un sonoro “no”. Alla luce di ciò, l’unico modo in cui si può sperare di approcciarsi a Dante senza rischiare la berlina è utilizzando quel meccanismo di distaccata umiltà di cui sono state oggetto, più o meno consapevolmente, tutte le grandi opere letterarie: la parodia. 

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli, in arte I soliti idioti, decidono di trasportare l’oltremondo dantesco ai giorni nostri, senza per questo rinunciare all’umorismo che li ha resi così celebri negli ultimi anni. La solita commedia – Inferno immagina che Dante, ormai in Paradiso da più di mezzo millennio, venga ora incaricato da Dio di scendere sulla Terra e catalogare tutta una sfilza di nuovi vizi che l’Inferno, ancora fermo al sistema di valori medievale, non è in grado di collocare e punire. Il Sommo Poeta si trova così catapultato in un mondo a lui alieno e dai tratti smaccatamente infernali, con la sola guida di un Virgilio che, invece di celebrare i fasti di Roma, si guadagna da vivere lavorando in un discount. 

Lo scopo dietro a tale scelta è palese, per non dire scontato: gettare uno sguardo critico sulla società contemporanea, irrimediabilmente corrotta e destinata alla dannazione eterna. Come l’Alighieri più illustre, anche la sua parodia è solita intrattenersi con i “dannati”, indagando la loro quotidianità per individuarne i vizi e, al tempo stesso, per fornire una galleria di esempi da non seguire al proprio pubblico. 

Biggio e Mandelli, mutuando in modo piuttosto intelligente ed efficace la struttura dell’Inferno dantesco, infarciscono così il film di sketch e digressioni, senza per questo rinunciare a una struttura di base solida. Mossa astuta ma giustificabile la loro, che si permettono così il lusso di dirigere un film con la stessa logica con cui dirigerebbero una sitcom.

Il problema del film non è la sua natura episodica, ma, semmai, il ricorso a una comicità troppo scontata, fatta di irritanti tormentoni e idee già vecchie e telefonate in partenza. Non tutte, sia chiaro: il parallelo tra la dipendenza da cellulare e quella da eroina, benché visto ormai in ogni salsa, è ben reso (graziosa la citazione a Trainspotting); e, più in generale, tutta la messa in scena del nostro mondo, così simile a una bolgia infernale, è particolarmente ispirata e oltre le aspettative.

Non basta, però, una manciata di idee efficaci – il ricorso sporadico a stilemi tipici del cinema horror, la rappresentazione di Dio e di Lucifero, il continuo cambio di focalizzazione da un personaggio all’altro – a rendere sufficiente un film che fa della superficialità il suo leitmotiv, e che si limita a cavalcare l’onda di un moralismo di maniera che tanto facilmente riscuote il plauso del pubblico, ma che con altrettanta facilità manca di una satira veramente graffiante. 

Se si vuole sorridere e ci si accontenta di poco, allora il film di Biggio e Mandelli può essere un’opzione; se si cerca una satira pungente, invece, il consiglio è di rivolgersi direttamente a Dante, con la certezza che non se ne rimarrà delusi.