A distanza di quattro anni da Habemus Papam, Nanni Moretti torna nelle sale con Mia madre, pellicola in cui Margherita Buy interpreta una regista alle prese con le difficoltà di girare un film, difficoltà esasperate da una situazione privata che minaccia di portarla al tracollo emotivo. Una bravissima Giulia Lazzarini interpreta la madre di Margherita, presenza al tempo stesso discreta e carismatica, la cui malattia finisce per influenzare tutti i personaggi del film, direttamente o indirettamente. Attorno (o, per meglio dire, accanto) a questo centro di gravità drammatico, infatti, prendono forma tutte le sequenze più propriamente “comiche”, metacinematografiche, durante le quali spicca l’istrionica interpretazione di John Turturro, qui nel ruolo di un attore in conflitto con se stesso.

Non è un caso se mi soffermo tanto sugli attori. La scelta di lavorare con un cast così vario ha permesso al regista di concentrarsi sui singoli personaggi, divertendosi a tirare fuori dal cilindro magico di ciascuno una gamma di sfumature con cui andare ad arricchire e colorare il canovaccio di partenza. 

Viene facile pensare, a questo proposito, alla bravura della Lazzarini, capace, con uno sguardo, di comunicare al tempo stesso commozione e distacco; impossibile, poi, non riconoscere in Turturro l’eredità di Michele Apicella, alter-ego giovanile e turbolento dello stesso Moretti, il quale, qui, si ritaglia una parte più saggia e pacata. 

Accanto al lavoro svolto da e su questi nomi importanti, però, è se possibile ancora più significativo notare come anche la giovanissima figlia di Margherita dimostri, nonostante l’età e il ruolo marginale, una non scontata disinvoltura e naturalezza nel recitare, a riprova dell’attenzione con cui il regista ha lavorato sugli attori.

Per quanto riguarda la struttura, come già detto, il film procede su un doppio binario: un lato intimistico, drammatico, e un lato decisamente più comico. La Buy riesce a passare senza problemi da una realtà all’altra, mantenendo quel giusto equilibrio tra distacco e continuità, ma nonostante ciò la struttura in sé rimane forse un po’ troppo rigida e ripetitiva, benché mai noiosa. 

Nel suo essere un film di ricordi, illusioni e autocritiche, Mia madre prende anche molto dal cinema di Fellini. A molti registi capita, arrivati a un certo punto della propria carriera, di volersi scrutare dentro con l’occhio critico e beffardo di un uomo del mestiere, e questo è particolarmente vero per Moretti, che sin dall’inizio non ha mai nascosto la propria vena autoironica. 

Nel fare questo si serve ancora una volta degli strumenti felliniani per eccellenza, ormai entrati nell’uso comune del linguaggio cinematografico: assottigliamento del confine tra sogno e realtà, situazioni assurde, rottura della quarta parete. 

Nel dare la parte principale a una donna, infine, Moretti rifiuta una scontata e semplicistica lettura meramente autobiografica, oltre a ribadire una non comune sensibilità ed empatia nel tratteggiarne la psicologia.