Dal 2001 in poi, la saga di Fast & Furious ha sempre rappresentato la trasposizione cinematografica del binomio “donne e motori”. E muscoli, tanti muscoli, aggiungerei, visto che due tra le sue star più iconiche, Vin Diesel e Dwayne “the Rock” Johnson, più che a delle statue greche sembrano voler assomigliare sempre più a dei lievitatissimi culturisti. 

Il brand, nonostante alti e bassi di critica e botteghino, sotto la direzione registica di Justin Lin sembra aver imboccato la corsia preferenziale, sfornando un quinto e un sesto capitolo sempre più esagerati e apprezzati dal pubblico. Sulla scia del successo, nel 2013 le riprese del settimo capitolo erano già in cantiere, quando la morte di Paul Walker, volto storico della saga, costringe la produzione a una brusca pausa. 

James Wan, regista già affermatosi in ambito horror con pellicole come Saw o L’evocazione, si trova così per la prima volta a dover prendere le redini di un genere non suo, dovendo al tempo stesso ovviare alla scomparsa dell’attore principale e non scontentare una fanbase esigente e infervorata. Il risultato è Fast & Furious 7, il capitolo più esagerato, rumoroso e “caciarone” della saga. 

La trama prosegue esattamente come suggerito dal finale del precedente film, con il fratello grosso e cattivo di Owen, Deckard Shaw (Jason Statham), che giura vendetta a Dominic Toretto e alla sua crew di sbandati. Già dalla sequenza iniziale, però, si capisce come Wan abbia voluto spingere l’acceleratore sul fattore action: sparatorie, coreografie da film di arti marziali orientale, esplosioni e personaggi al limite dell’immortalità sono il biglietto da visita con cui il regista si stacca dal passato. Il resto del film è tutta un’escalation di situazioni ai limiti dell’assurdo, tra auto paracadutate da un aereo a droni militari volanti, fino ad arrivare all’iconica sequenza in cui, alla guida di una costosissima Lykan Hypersport, il protagonista si getta dalla cima delle Etihad Towers di Abu Dhabi. 

A fare da contrappeso a una sceneggiatura complessivamente scialba c’è una regia carichissima, forse anche ai limiti dell’eccesso. Il budget faraonico deve aver fatto gola a Wan, che sembra voler provare e sperimentare ogni movimento possibile della macchina da presa; l’impressione, nonostante l’indubbia abilità registica dimostrata negli anni, è quella di un neopatentato alla guida di una Ferrari nuova di zecca: tanta esaltazione, poco controllo. A enfatizzare il carattere nevrotico dell’impianto registico ci pensa poi la natura “cosmopolita” del film, che, dopo una serie di capitoli sostanzialmente monoambientazione, decide di lanciarsi in un continuo tour de force tra tornanti montani, pulsanti metropoli e party multimiliardari. 

Anche qui la regia si lascia prendere la mano e, più che di fronte a un film, a volte sembra di trovarsi davanti a un rumorosissimo, patinatissimo spot turistico. Chi della saga alle origini ha apprezzato il carattere vagamente “clandestino” e underground si sentirà tradito, ma d’altronde la via delle corse clandestine dure e pure è stata abbandonata da tempo, in favore di intrecci che arrivano a coinvolgere servizi segreti, spionaggio, armi di distruzione di massa e lusso sfrenato. In sostanza è la risposta americana, pecoreccia ed esagerata alla classe di James Bond. 

Nonostante le evidenti pecche, tra cui, oltre ai già citati problemi di sceneggiatura e scrittura dei personaggi, un montaggio stroboscopico e non sempre chiarissimo, il film diverte e intrattiene. Diverte non solo perché si prende dannatamente poco sul serio, arrivando persino a citare tra le righe Tarantino, 007, il mondo dei videogiochi e il cinema d’azione orientale, ma anche perché finalmente si è lasciato fare a Vin Diesel e compagnia bella quello che sanno fare meglio: dare mazzate. 

Salvo un doveroso omaggio a Paul Walker sul finale, il film riduce al minimo i sentimentalismi e assicura un primato assoluto all’azione in tutte le sue salse, tanto che verso il finale si raggiunge un grado di assuefazione tale da sfociare facilmente in noia, soprattutto se non si è avvezzi a questo genere di “barocchismo” registico.