La responsabilità di realizzare un film dopo un successo impressionante come quello di Quasi amici forse ha un po’ schiacciato le possibilità di Olivier Nakache ed Eric Toledano, che con Samba hanno cercato di realizzare un film che ricordasse il precedente, ma allo stesso tempo alzando le ambizioni e parlando di attualità e argomenti di spettro europeo: sempre un rapporto tra persone lontane e diverse, ma anche uno sguardo sull’integrazione degli immigrati e la questione dei sans-papier, i migranti in attesa di documenti e costretti dallo Stato a vivere come clandestini. 

Il film ha come protagonista il Samba del titolo, un africano che da10 anni vive in Francia senza che gli venga riconosciuto il diritto di cittadinanza; tra sotterfugi e illegalità regolarizzate, conosce un’assistente sociale che cercherà di cambiargli la vita, innamorandosene, ma la burocrazia e le difficili condizioni di vita renderanno la loro esistenza più difficile.

Scritto dai due registi partendo dal romanzo di Delphine Coulin, Samba è una favola contemporanea che mette insieme commedia sentimentale e dramma realistico e politico, cercando di mostrare al pubblico quanto i due autori siano capaci di confezionare un prodotto adatto a tutti i palati, ma anche più consapevole di se stesso e delle proprie potenzialità cinematografiche. 

Il film di Nakache e Toledano segue il percorso dei due protagonisti e cambia pelle insieme a loro: comincia come un dramma realista e politico sulla situazione burocratica e legislativa francese in tema di immigrazione, segue la piccola odissea di Samba (un ottimo Omar Sy) tra disagi familiari, incertezze personali e contrattempi legali di ogni tipo, mostrando come Quasi amici abbia permesso ai due registi di costruire uno sguardo e una visione più complessi e ambiziosi, capaci di non dimenticare i sorrisi in un contesto serio, seppure non tragico perché quotidiano; poi con il passare del gioco in mano a Charlotte Gainsbourg (sorprendente in un ruolo brillante), il film pianta pesantemente i piedi nelle convenzionalità più corrive, nelle dinamiche facili e superficiali, nei meccanismi “hollywoodiani” che oltre a sposarsi male, a stonare con il contesto narrativo, rischiano di rendere del tutto superfluo il discorso intessuto precedentemente. 

Non è una questione di preferire il dramma impegnato alla commedia sentimentale, quanto di serietà di approccio, come se i temi seri fossero di peso e di troppo per i due registi, come a voler attrarre uno spettatore diverso, più smaliziato cercando di manipolarlo con risoluzioni di racconto banali. E soprattutto di linguaggio cinematografico che dovrebbe essere sufficientemente fine da poter fondere le due anime anziché contrapporle in modo discutibile. La commedia è un veicolo prezioso, usarla come mero mezzo commerciale è farle un danno. 

Mezzo passo falso per i due registi quindi, che si possono comunque accontentare di discreti incassi in patria (ovviamente imparagonabili a quelli del film precedente), di un nuovo status internazionale e di aver dimostrato di saper fare anche cose più ambiziose. Se poi non se ne pentissero a metà film, sarebbe meglio.