Il viaggio fisico che diventa una ricerca spirituale, l’immersione nella natura per superare un blocco, un disagio, una crisi oppure per affrontare il passato, è un tema che appartiene alla cultura americana e che si riflette nel cinema e nella letteratura. E, poiché ormai siamo abituati alla letteratura che diventa cinema, anche nel caso di Wild diretto da Jean-Marc Vallée bisogna partire da un libro, il memoir di Cheryl Strayed che Reese Witherspoon ha voluto portare sul grande schermo. Una storia di redenzione, un percorso di risalita che passa attraverso la sofferenza e la disperazione, l’odio nei confronti di se stessi e del mondo, prima di ritrovare un motivo per andare avanti e tornare ad amarsi (e ad amare).
Dopo avere perso la madre a cui era molto legata, Cheryl è precipitata in un vortice di autodistruzione, tra sesso, droga e rabbia repressa. Toccare il fondo, però, ha generato in lei un desiderio di rinascita che l’ha portata lungo il Pacific Crest Trail, 4000 chilometri dal deserto del Messico fino ai monti del Canada da percorrere a piedi, attraverso paesaggi bellissimi e ostili. Da uno stato all’altro, Cheryl incontra persone che la aiutano o la minacciano, si confronta con le proprie fobie e scopre il coraggio, la resistenza della mente e del corpo anche nelle condizioni più avverse.
Il viaggio in solitaria è una tradizione soprattutto maschile, ma con Tracks (la storia vera dell’australiana Robyn Davidson) e ora con Wild vediamo donne ferite che partono con lo zaino in spalla, armate di un quaderno di appunti e determinate ad affrontare la natura e se stesse. Possiamo pensarla come una nuova forma di femminismo, forse, per dimostrare che una donna è in grado di salvarsi da sola.
Lungo la strada Cheryl ricorda i momenti di luce e di buio, che scopriamo attraverso brevi flashback. questa la parte più debole della storia sceneggiata dallo scrittore Nick Hornby, che frammenta il passato per distribuire il dramma, ma non riesce a integrarlo davvero con il presente. Gli avvenimenti che formano il mosaico della “caduta” di Cheryl appaiono a volte slegati e per lo spettatore è difficile ricostruire le tappe che l’hanno portata a trasformarsi da brava ragazza a moglie infedele, fino al divorzio e alla decisione di cambiare.
La protagonista (interpretata dalla Witherspoon) rimane quasi staccata dal paesaggio circostante, non lo “assorbe” come accadeva in Tracks, e così si perde qualcosa, un elemento di maggiore connessione tra l’esterno e l’interno. Il film riesce però a catturare quel senso di solitudine e di pericolo che accompagna un viaggio solitario, senza cellulare, senza navigatore, a contatto con la paura, che va affrontata e accettata per andare avanti.
Il passato di Cheryl, alla fine, appare più angosciante della solitudine del deserto e del silenzio delle montagne, perché mancava in lei quello spirito di sopravvivenza che le permette invece di ritrovare la strada in mezzo alla neve o di raggiungere la tappa successiva con i piedi sanguinanti. Non mancano i momenti comici, che nascono dal contrasto tra la fragilità (fisica e psicologica) della ragazza e il “mostro” che porta sulle spalle, lo zaino carico di oggetti inutili ma anche la tentazione costante di mollare. “Puoi sempre tornare indietro”, ripete Cheryl a se stessa. Eppure non lo fa. Va avanti, verso un nuovo futuro.