“Mi chiamo Maya parla di fuga”, dice la prima pagina delle note di regia che ho davanti. Ma secondo me, più che di fuga narra di un viaggio alla scoperta di se stessi e degli affetti più veri. Forse perché non c’è viaggio senza fuga, o magari perché, semplicemente, non si può dir davvero di aver viaggiato se non scappando o staccando da tutto, per far poi ritorno a casa.
Esattamente quello che, a seguito di un fatale incidente, sono portate a fare Niki, 16 anni, e la sorellina più piccola Alice, di 8. Ce lo racconta in modo semplice ma sublime il regista Tommaso Agnese che – dopo aver approfonditamente indagato l’adolescenza metropolitana attraverso innumerevoli opere documentaristiche e cinematografiche in collaborazione con la Regione Lazio e le Asl di Roma – porta sui grandi schermi la sua opera prima, un film carico di significato e riflessioni.
Niki e Alice hanno una mamma speciale. Figlie di due papà diversi (uno fisso in America, l’altro addirittura sconosciuto), vengono quotidianamente cullate in un mondo di speranze e colori da una giovane donna ricca di avventure da raccontare. Uno spirito libero quarantenne con tanta gioia di vivere, e un’intramontabile passione per i colli toscani e l’equitazione. La loro mamma, interpretata benissimo da Carlotta Natoli, è tutto il loro mondo, ma all’improvviso e inaspettatamente scompare. Un camion rimorchio non rispetta le regole della strada, non si ferma allo Stop, e la travolge.
Da qui parte il vero racconto di Mi chiamo Maya, con due anime distrutte, quelle delle giovani orfane, consapevoli che solo restando unite, insieme per sempre, la loro vita potrà continuare a esser degna di esser chiamata tale. Ma Niki e Alice sono piccole, e minorenni. Arrivano i servizi sociali e vogliono affidar l’una a una casa famiglia, l’altra al papà che lei non ha mai visto, ma che a tutti gli effetti l’ha sempre riconosciuta. E allora l’unica possibilità sembra quella di scappare. Aprire la finestra e saltare giù, per poi correre tra le vie di Roma senza farsi trovare dalla polizia.
“Mi chiamo Maya si basa su dati di cronaca reali, che mostrano davvero come la tendenza degli adolescenti sia quella di scappare da casa. Più del 30% dei giovani sotto i vent’anni sono scappati almeno una volta nella loro vita da casa. E moltissime sono le fughe dalle casa famiglia, dove i minorenni vivono realtà familiari certo più complesse e difficili”, spiega Agnese, il regista. “Queste fughe durano poco, pochi giorni soltanto. Così come ho voluto facesse Niki. La sua fuga dura solo tre notti”.
E in queste tre notti la vita di Niki e Alice si trasforma, passando da giovani come loro che tuttavia i genitori li hanno ma non li vogliono. Il primo “salvataggio” avviene da parte di una presunta amica di Niki, indipendente, e anche molto arrogante. Per guadagnarsi da vivere fa la cubista in una discoteca della zona e si spoglia a pagamento sulla rete. Il secondo giorno, di corsa per le vie della città, Niki e Alice verranno rallentate da una biondina tuttofare, ricchissima e viziata. Anche lei i genitori non li vede da un po’, perché “loro lavorano, mi lasciano sempre a casa da sola e con la carta di credito illimitata”. Ma anche questa realtà alle due protagoniste non piace affatto. Niki e Alice, allora, se ne vanno, di nuovo. Alla ricerca di un nuovo tetto sotto il quale proteggersi dalla pioggia e dal freddo. Ma non lo trovano. E la seconda notte dormono sotto le stelle. Una semi caccia al ladro da parte dell’assistente sociale (Valeria Solarino) che in ogni modo cerca di convincerle a tornare a casa. E poi lui, il circense. Un bel ragazzo Marc, un po’ hippie e mangia fuoco (Giovanni Anzaldo) che con maestria conquista il cuore della giovane Niki, che a lui si affida e che con lui si confida, decidendo addirittura di passar la notte insieme. Ma anche Marc all’alba la abbandona. Deve partire per la Spagna, in tour con qualche collega circense. E ancora una volta Niki si sente vuota, triste, e soprattutto sola. Perché in quelle tre notti di fuga sì, qualche ora d’emozione l’ha provata. Ma nulla è riuscito ad avvicinarsi davvero a quella che lei stessa è. Alice, tra l’altro, è tornata dal papà. A soli 8 anni non ha tuttavia faticato a capire che scappare non fosse la risposta migliore alle domande che la morte della mamma le ha obbligate a porsi.
Un lungometraggio di 90 minuti che apparentemente non ha inizio e non ha fine. Ma forse questo è davvero lo scopo del racconto. Lo spiare, il diventare inevitabilmente voyeur di una vita non nostra, ma forse in alcuni tratti molto simile a quella di ognuno di noi.
Perché anche Niki, alla fine, capisce che scappare non serve a nulla. Però quel viaggio le è servito. Ha imparato, seppur in poco tempo, a conoscersi. A capire che fidarsi è bene, ma non fidarsi forse è veramente meglio. Ha capito che devi contar su te stesso con lealtà e rispetto nei confronti di quello che sei. Altrimenti, che tu abbia 16 anni o 50 poco importa. Andare avanti diventa solo un inferno.
Mi chiamo Maya non può esser considerato un prodotto commerciale. Bisogna aver voglia di Cinema per decidere di guardarlo. Ma alla fin fine, credo ne valga la pena. Da segnalare la bravura delle attrici semi esordienti protagoniste di tutta la vicenda. Niki si chiama Matilda Lutz, ha 22 anni ed è di Milano, papà statunitense. Qualche film oltreoceano alle spalle e tanta voglia di fare. “Ringrazio chiunque abbia lavorato al film, e in particolar modo ringrazio Niki” scrive sulla sua Pagina Facebook. “Mi ha insegnato che a volte è davvero bello chiedere aiuto”, dice. Alice, invece, è interpretata da Melissa Monti, occhi chiari, capelli biondi. Oltre a Mi chiamo Maya ha recitato, per la tv, in “Solo peramore”. Studia recitazione alla scuola Jenny Tamburi, e il suo sogno nel cassetto è recitare con Violetta (Disney).