“The future belongs to the mad”, “il futuro appartiene al folle”, reca come frase promozionale una delle locandine di Mad Max: Fury Road (presentato Fuori concorso a Cannes). E mai glossa fu più appropriata. Un paesaggio quasi marziano squassato dalle tempeste di sabbia lega questo film alla precedente trilogia-icona degli anni ’80, in cui Max Rockatansky (all’epoca un giovanissimo Mel Gibson) si muoveva attraverso distopiche distese post-apocalittiche a bordo della sua Interceptor

Con tutti i suoi pregi e difetti, il merito della trilogia originale è di aver fondato un genere ibrido e inconfondibile, in cui la sottocultura glam-punk si fonde alla fantascienza, senza dimenticare una buona dose di western misto a toni ora epicheggianti, ora più favolistici. La rapacità dell’essere umano e la sua follia sono al centro dell’interesse di George Miller, e, infatti, a distanza di oltre vent’anni questo reboot – perché di ciò si tratta, più che di un vero seguito della saga originale – mantiene inalterato il suo leitmotiv, innalzandolo semmai a una dimensione da blockbuster hollywoodiano.

La Cittadella è una comunità gerarchica e patriarcale comandata da Immortan Joe, il quale, oltre a tenere in scacco la popolazione detenendo il monopolio dell’acqua, mira a creare una dinastia di epigoni grazie al proprio harem. Le sue Cinque Mogli, però, si ribellano, e, grazie all’aiuto della tenace soldatessa Furiosa (Charlize Theron), fuggono alla volta dell’edenica Terra Verde, mentre Joe, chiamati a raccolta i più folli e sanguinari tra i suoi lacchè, parte al loro inseguimento. 

In tutto questo Max (Tom Hardy) ha un ruolo quasi marginale, almeno finché non si trova quasi per caso a dover collaborare con Furiosa e le altre fuggiasche. La prima cosa che si nota, però, è che quello che dovrebbe essere il protagonista parla ben poco, e neppure gli altri personaggi brillano per loquacità, a dirla tutta. A volte parrebbe di essere di fronte a un film muto, se qualche grugnito o le innumerevoli esplosioni, tamponamenti tra autoveicoli, urla e spari non ricordassero costantemente che sì, Mad Max è tornato, ma questa volta con un taglio decisamente più action del solito.

George Miller, regista di Mad Max, non ha mai nascosto il suo amore per il western, ma qui l’influsso è più palese che mai: ci sono le distese di sabbia e le steppe divorate dagli avvoltoi; l’auto-cisterna corazzata dei fuggiaschi ricorda una delle prime locomotive nell’epoca della gold rush, mentre i continui e incalzanti attacchi degli inseguitori non sono altro che variazioni sul tema dell’assalto alla diligenza. Un western che è anche road movie però, laddove il viaggio diventa anche un espediente per parlare dell’essere umano e della sua inestinguibile sete di redenzione. 

Rimanendo in superficie Mad Max è un ottimo film d’azione, carico di adrenalina e carisma. Ma guai a giudicare solo dalle apparenze, perché, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il film è tutt’altro che grezzo, e quella che può essere scambiata per eccentricità fine a se stessa – villain con maschera e respiratore in stile Star Wars? Chitarre elettriche che sprigionano fiamme? Kamikaze convinti di finire nel Walhalla? – nasconde un’incredibile cura per il dettaglio, nonché la volontà da parte del regista di creare un universo credibile e, per quanto possibile, coerente nella sua follia. 

Nessuno, ad esempio, ci parla dei diversi simboli che vediamo impressi sulla pelle degli schiavi o di come sia sorta una religione che unisce il mito di Odino al culto dell’automobile; non inquadriamo fino in fondo il progetto megalomane di Immortan Joe, né ci sappiamo spiegare l’infinità di dettagli che, pur apparendo in una sola, marginalissima inquadratura, lasciano a bocca aperta per l’inventiva e aprono a loro volta abissi di speculazione. La fiducia in un eventuale (e probabilissimo) sequel è alta. 

Miller arriva qui a sperimentare come mai aveva fatto prima, dallo storytelling all’uso dei colori, dei gialli e dei blu spalmati sulla pellicola come ai tempi del cinema in bianco e nero. Si sperimenta anche il 3D, con qualche effetto speciale di troppo che può far storcere il naso a chi, come me, preferisce vederlo utilizzato con più parsimonia e a fini immersivi. 

Mi azzarderei a dire che Fury Road è il film che Miller ha sempre voluto fare, fin dall’uscita del primo Mad Max (da noi Interceptor) nel 1979. Se anche così non fosse, il reboot non crolla sotto il peso del passato, e, anzi, si prepara a diventare il migliore capitolo della saga.