Qualcuno dice che un regista non faccia altro che ripetere lo stesso film ancora e ancora. Se questo può non essere vero per alcuni, è innegabile che per altri, i cosiddetti “autori”, quella di riproporre ogni volta lo stesso canovaccio, seppur variato, è una necessità artistica, prima ancora che un vezzo. Questo è sicuramente il caso di Paolo Sorrentino, il quale, dopo aver portato la propria poetica sugli schermi di tutto il mondo grazie all’Oscar a La Grande Bellezza, decide con Youth – La giovinezza di calcare un sentiero in parte già noto, sperimentando però uno stile più autoironico e intimistico.

Frank Ballinger (Michael Caine) è un compositore e direttore d’orchestra ormai ritiratosi dalle scene. Insieme al suo amico di lunga data Mick Boyle (Harvey Keitel), regista ottantenne alle prese con il suo “film-testamento”, passa le vacanze estive in un hotel tra le Alpi svizzere, come ogni anno. Insieme a loro, tra la miriade di avventori di ogni generazione, uno scalatore impacciato, un giovane attore in cerca di un’identità, miss Universo, persino un alter ego di Maradona. 

Alla Roma vibrante e decadente de La Grande Bellezza fa seguito la quiete di un paesaggio montano, riflesso dell’apatia che, secondo la figlia, caratterizzerebbe Frank; quello stesso distacco che gli impedisce di tornare a dirigere un’orchestra, nonostante le preghiere della Regina d’Inghilterra in persona.  

Youth è, in primis, una lunga riflessione sulla vecchiaia e sulla memoria, condotta con la solita eleganza ricercata a cui ci ha abituato Sorrentino. Ricercatezza spesso scambiata per vuoto intellettualismo dai suoi detrattori, ma che in questo film, vuoi per l’ambientazione meno mondana o la maggiore dose di umorismo, finisce per risultare più autentica, digeribile anche da chi mal sopporta uno stile così marcato. 

Il personaggio interpretato da Michael Caine è, sì, una rilettura di Jep Gambardella – entrambi sono cinici, disincantati e altezzosamente ironici -, ma è altresì vero che le pur presenti differenze sono sostanziali. Nel complesso Fred ci appare sin da subito come un personaggio malinconico, manchevole di qualcosa che, come per tutti gli altri personaggi del film, ha a che fare con il proprio passato. Il suo rapporto con l’amico Mick, anch’egli artista alle prese con l’inevitabile decadenza del corpo, è descritto per sottrazione, senza tutte quelle sovrastrutture di cui – sempre secondo i soliti detrattori – Sorrentino non riuscirebbe a liberarsi. Un’amicizia di poche parole che, anche per merito dei due attori con la A maiuscola, riesce a essere persino commovente nella sua semplicità.

Non è nello stile di Sorrentino concentrarsi su un solo argomento per esaurirlo il più possibile; i suoi film sono mosaici rinascimentali in cui ogni tessera deve essere levigata all’inverosimile, in cui l’occhio vuole la sua parte tanto quanto la mente. La fotografia è pulita come da tradizione, mentre le musiche – da sempre di interesse primario per il regista – spaziano dalla lirica all’elettronica con la disinvoltura di un artista onnivoro. 

Difficile esprimere giudizi definitivi a distanza così ravvicinata, specialmente se si parla di pellicole capaci di regalare sensazioni tanto intense quanto volatili. Una seconda visione è d’obbligo, specialmente per Sorrentino. Attualmente, però, l’impressione è che Youth abbia tutte le carte in regola per doppiare il successo del predecessore, se non per l’ambientazione – il fascino di Roma è difficilmente superabile – almeno per la leggerezza della messa in scena, in un equilibrio perfetto tra l’omaggio ad Amarcord, una forte voce autoriale e la sottile autoironia di un regista che, mai come dopo un Oscar, si sarebbe potuto lasciare andare al narcisismo più sfrenato.