Se è vero (non sempre) che ogni film è anche una rielaborazione dell’immaginario che lo ha creato, ci sono generi che accentuano questo aspetto del cinema. Il western è uno di quelli, forse perché legato specificamente a un periodo irripetibile, e tranne alcuni casi mai ripetuto, della storia del cinema: ultimo esempio è The Salvation, film del danese Kristian Levring, che oltre a mescolare elementi del cinema western nei decenni li mescola anche con la provenienza nordica dell’autore.
Il protagonista, Mads Mikkelsen, attende il ricongiungimento con la moglie e il figlio, dopo che sette anni prima aveva lasciato la Danimarca per fare fortuna. Ma durante la prima notte, sono assaltati da due banditi, che uccidono moglie e ragazzino. La vendetta dell’uomo non si farà attendere, ma scatenerà una reazione a catena tragica.
Scritto dal regista con Anders Thomas Jensen, The Salvation è un western post-moderno che cerca di rileggere l’epopea classica del western, soprattutto quella di Anthony Mann, con elementi contemporanei (e a loro volta derivati) come quelli di Tarantino, e anche di contaminare l’andamento narrativo con le dinamiche del dramma da camera nordico, soprattutto nella prima parte.
Non a caso produce la Zentropa di Lars Von Trier e la sua influenza si può vedere soprattutto nella prima parte, nella tensione compatta e cupa del viaggio della diligenza (figura centrale del western classico) da cui parte il viaggio di vendetta, risentimento e conseguenze da tragedia greca che illuminavano i barlumi più moderni del western anni ’60 e ’70; dove entra in gioco la contemporaneità è nello sguardo di Levring, che se non abbraccia la stilizzazione e l’ironia tarantiniana ne sposa in parte l’occhio, la rigorosità visiva, la ricerca dell’effetto stilistico più della causa umana.
Ed è qui che The Salvation si perde, si confonde, resta in superficie: perché non scava nei suoi personaggi, negli abissi di dolore ed eroismo che si portano dietro, come il fratello del protagonista, la donna del cattivo, muta e magnetica, lo stesso villain che dovrebbe essere una spina dorsale del film (e l’attore Jeffrey Dean Morgan lo permetteva), i quali purtroppo sono solo figure rese più o meno magnetiche dagli attori, non dalla sceneggiatura – e non tutti possono avere il carisma di Eva Green.
A Levring interessa più giocare con le inquadrature, i movimenti di machina, gli effetti digitali (mediocri) che renderli preziosi per il coinvolgimento dello spettatore e per la profondità del film e se il risultato è piacevole non raggiunge comunque, nemmeno nel campo del puro godimento grafico, livelli troppo elevati. Certo, per gli appassionati (e chi scrive ne fa parte) un western non si rifiuta mai, ma qui manca il pathos e la complessità, anche meramente filmica, che ha reso il genere immortale, anche se morto.