Mauro Magazzino è un trentunenne siciliano, tre lauree all’attivo ma nessun lavoro in vista. Le sue giornate si dividono tra la fidanzata (che lo lascerà di lì a poco per andare a vivere con un avvocato meneghino), il suo sax, un caffè al bar e i suoi genitori, sempre più esasperati dalla sua presenza. Mauro, in sostanza, è un inetto, e alla ricerca di un lavoro fisso preferisce di gran lunga dilettarsi in una gara di peti con il padre, o impartire agli sventurati amici lezioni sulle tecniche di coltivazione del pisello odoroso.
Mauro c’ha da fare si vorrebbe presentare come un film comico con tratti grotteschi, inserendosi in un filone che il regista Alessandro Di Robilant ha dimostrato di apprezzare in passato. Peccato che la comicità non sia di casa, e al grottesco propriamente detto si sostituisca, spesso e volentieri, uno spiacevole senso di disagio e imbarazzo per il comportamento eufemisticamente fastidioso del protagonista. Durante la visione si sviluppa un genuino odio nei confronti di Mauro, che dal canto suo sembra fare di tutto per far perdere la pazienza persino al più ascetico degli spettatori. Potrebbe ricordare vagamente il morettiano e nevrotico Michele Apicella, oppure, sotto altri aspetti, il Giulio Verme di Italiano Medio, senza però condividere con questi ultimi il carisma o una seppur minima profondità psicologica.
Paradossalmente, però, in un’ottica prettamente grottesca il fastidio provocato dalla visione risulta essere uno degli elementi più positivi della pellicola. O meglio, lo sarebbe se solo il film non fosse un’accozzaglia di scenette e gag accostate senza una logica, con un finale che, seppur più intelligente del resto, non riesce a sollevare un’ora e passa di nulla cosmico e battute poco divertenti.
La regia è pura anarchia amatoriale. I nessi logici e spazio-temporali tra un’inquadratura e l’altra tendono a saltare spesso e volentieri, e il risultato è più simile a una web serie fatta male che non a un film. Il vero problema, però, sorge nel momento in cui si deve cercare di classificare il film. Surreale ma non troppo; intellettualistico senza spingersi oltre la semplice citazione; un film che vorrebbe essere ironico, straniante, eversivo, ma che invece, osando troppo poco, precipita nel Limbo di chi vuole la botte piena e la moglie ubriaca.
Il finale fornisce una spiegazione razionale al comportamento di Mauro, ma dopo essersi sorbiti dialoghi imbarazzanti, sequenze mal legate tra loro e personaggi dimenticabili è naturale chiedersi se non si tratti solamente di un modo furbo per coprire e giustificare evidenti problemi di scrittura.
L’impotenza di fronte al mondo del lavoro; la paralisi esistenziale; la commedia tragica di un’intelligenza riversa su se stessa e autofagocitante; l’imprevedibilità beffarda del Fato: tutte tematiche che è possibile leggere in filigrana, irrimediabilmente guastate da una sfilza apparentemente ininterrotta di tempi morti e superficialità.