A un mese dal suo esordio, l’Expo continua a tenere banco… alimentare. Tutto rigorosamente con le minuscole, nella speranza che quello con le maiuscole (Banco Alimentare, per intenderci) possa trarre giovamento da una kermesse il cui tema centrale è il cibo, argomento al quale noi italiani siamo molto sensibili. Tant’è vero che oggi in Lombardia la mattina nessuno si reca più al lavoro. Tutti in coda verso Rho-Fiera, con l’auto o la metro non importa, l’importante è che sia Expo. Ve lo aspettavate? Francamente no, visti i ritardi dei lavori che negli ultimi mesi sconfinavano in un imbarazzo interplanetario. Qual è, allora, il segreto di un successo concretizzatosi sin dai primissimi giorni? Forse il merito va ascritto alla cosiddetta sharing economy (in italiano, consumo collaborativo), un modello economico – basato su pratiche di scambio e condivisione di beni materiali, servizi o conoscenze – che si sta affermando come alternativo al consumismo classico e sta contribuendo a ridurre l’impatto che quest’ultimo provoca sull’ambiente? Pensateci bene, tutto è sharing: dall’auto alla musica, dalle biciclette alle scrivanie, dai loft ai taxi. E andando a ritroso nel tempo, il baratto era sharing, così come le figurine Panini (ve li ricordate quegli scambi tra ragazzini? Celo… celo… celo… manca!).



Le corna erano sharing, e sicuramente – senza tema di smentite – lo sono ancora. Anche il voto di scambio, seppure nel campo delle pratiche illecite o quantomeno sconvenienti, è un po’ sharing. Ma questo ci porterebbe un po’ fuori tema. Dunque un pochino sarà pure anche merito della sharing economy, però – secondo noi, a nostro modesto avviso, in base alle nostre poche e infime conoscenze, per quel che ci riguarda, dal nostro punto di vista, attenendoci scrupolosamente alla nostra personale opinione – ebbene, il successo dell’Expo (udite udite!) è che “se magna!!!”. Stiamo parlando del ristorante più grande del mondo: un concentrato di bar, corner food, postazioni street food, sapori, odori, ingredienti che rappresentano un po’ tutto il globo.



Vi abbiamo già descritto l’eccellenza e qualche piccola ombra. Stavolta, invece, ci occupiamo di tutto ciò che non ci sogneremmo di assaggiare (perché poco commestibile, se non nocivo, o addirittura tossico), ma che, come noi, pregusterete sicuramente. Vogliamo scommetterci? In un’ipotetica classifica dei cibi più “velenosi” non si possono non porre al quinto posto i fagioli di Spagna, per l’alto livello di cianuro, presente nella pianta come sostanza difensiva. Era risaputo che Agatha Christie avrebbe voluto chiamare il suo romanzo “Fagioli di Spagna e vecchi merletti”, ma allo stolto e avido editore (che pure voleva darsi delle arie…) pareva sconveniente e volgare la parola fagioli sulla copertina di un romanzo giallo. Per buona pace sua e nostra, le vendite non ne hanno comunque risentito e a tutt’oggi il romanzo gode ancora di ottima salute. Al quarto posto si piazza il ricino. Benito Mussolini ci aveva visto giusto, dal suo terribile e non imitabile punto di vista.



Ligio al motto “Non bisogna fare di ogni olio un fascio”, dopo aver scartato gli oli d’oliva, di mais e di arachidi perché troppo usati in cucina e l’olio Agip Sint 2000 perché utilizzato copiosamente nelle carrozzerie italiche, il Duce decise che quello di ricino potesse funzionare agli scopi del regime, amaro e lassativo com’era. Per fortuna Mussolini, su questo argomento… scivoloso (le proprietà dell’olio), era un po’ ignorante: l’olio di ricino è innocuo, sono i suoi semi che, se masticati, possono essere mortali.

Non rimanete troppo male, amici del rabarbaro (terzo in questa venefica graduatoria), se a una gastroscopia il vostro stomaco apparirà lucido e splendente come una pentola nuova di pacca. Le foglie del rabarbaro, infatti, contengono un potente anti-ruggine che il minio gli fa un baffo. È inutile che andiate a buttare via la nota bevanda a base di rabarbaro che comincia per Z: primo, perché nella bottiglia non c’è più manco una goccia (l’avete svuotata voi!), secondo, perché il veleno è contenuto nelle foglie. Per cui, niente decotti o tisane, prego. Non che le si mangi tutti i giorni, ma il secondo posto se lo meritano le cicerchie, legumi coltivati in Asia, ma anche in Europa. Sono meglio conosciuti come “piselli d’erba”, “piselli indiani” o “vecce bianche”, ma secondo noi il nome più appropriato è almorta, considerate le neurotossine che provocano una malattia chiamata neurolatirismo, in grado addirittura di paralizzare gli arti inferiori del corpo. Per cui, con gli arti superiori, se funzionanti, non portatevela mai alla bocca. Palma d’oro del cibo tossico, Oscar per la peggior pietanza protagonista, Nobel per il piatto da evitare con cura (seppure varrebbe la pena di correre il rischio…), il pesce palla li batte tutti con la sua tetradotossina, 1.200 volte più forte del cianuro.

La scorsa settimana al padiglione del Giappone si è tenuta una dimostrazione – con annesso assaggio per il pubblico – di come si prepari un piatto di “sashimi di pesce palla” (cioè, fettine di pesce palla crudo). L’iniziativa ha rappresentato un piccolo evento, perché 1) era dal 1992 che questo alimento non poteva essere consumato in Italia; 2) pulire il pesce palla, cioè liberarlo delle sua interiora formate da una camera d’aria, è una… palla unica; 3) masticare il pesce palla, con le sue squame di cuoio, è altrettanto… una palla colossale. All’uopo si sono cimentati due cuochi giapponesi specializzati nel trattamento del pesce palla, Shigeoka Tadashi e Oshiumi Sadao. Sono venuti appositamente dalla prefettura giapponese di Yamaguchi (il viaggio da quella sperduta località nipponica fino in Italia è una… palla sesquipedale!) per mostrare la tecnica di “impiattamento” (rigorosamente su un piatto di portata argenteo) e per raccontare per filo e per segno in dialetto Hakata-ben (cioè… che due palle!) uno dei piatti tipici della cucina del Sol Levante. La dimostrazione, realizzata in un’area riservata chiamata “Pallazzetto dello sport”, è perfettamente riuscita, tanto che la “Gazzetta dello Sport” vi ha dedicato un lungo articolo (un po’ palloso invero) dal titolo: “All’Expo servito in area un gran palla su un vassoio d’argento”.