80 anni fa, precisamente il 1 dicembre del 1935, nasceva a New York Allan Stewart Konigsberg, in arte Woody Allen. Di famiglia ebraica, ben presto Allen trova nella musica jazz, nei trucchi di magia e nel teatro umoristico le proprie passioni, destinate poi a convergere in quella che sarà la sua occupazione più prolifica e destinata a proiettarne la fama fuori dai confini della sua amata New York: il cinema. Quale periodo migliore dell’estate, quindi, per ripercorrere a tappe la sterminata e multiforme produzione cinematografica del regista newyorkese? Il primo appuntamento è con Il dormiglione del 1973, un mix di fantascienza, distopia e umorismo alleniano.
Mike Monroe (interpretato da Woody Allen), musicista jazz nonché gestore di un ristorante vegano, subisce delle complicazioni durante un intervento di routine e viene congelato senza il suo consenso. Duecento anni dopo viene risvegliato, ma suo malgrado si ritrova catapultato in una società autocratica vagamente ispirata ai libri di Orwell; società nella quale lui – impacciato, spaesato e nostalgico del suo 1973 – si trova a dover collaborare con i ribelli per rovesciare il “leader” di turno.
Il dormiglioneè anche il primo film di Allen in cui compare la sua musa Diane Keaton, all’epoca impegnata ne Il Padrino e qui nei panni di Luna, un’artista dell’alta società che si troverà, suo malgrado, a collaborare con Mike, fino a diventare parte della ribellione.
Parlando del film non si possono non notare i semi di una forte sinergia tra Allen e la Keaton, destinata in futuro a dare corpo ad alcune tra le più divertenti e brillanti commedie del regista newyorkese, oltre a sfociare in un’unione anche nella vita privata. Dietro a un’apparente vacuità e superficialità, infatti – e forse proprio a causa di esse – Luna è una spugna pronta ad accogliere e assorbire i soliloqui nevrotici di Monroe/Allen, capace infine di rubargli la scena in un paio di sequenze, tra cui la parodia di Ultimo tango a Parigi (nell’originale, invece, il film parodiato era Un treno chiamato desiderio).
Il dormiglione rappresenta uno spartiacque nell’immensa filmografia di Allen, e conclude il suo periodo slapstick, incentrato su gag “fisiche” più che verbali (sulla scia di Chaplin, di Buster Keaton, o Stanlio e Ollio), e su una comicità dai forti tratti parodistico-satirici. Se l’Allen che siamo abituati a conoscere è verboso e cerebrale, potrebbe stupire come alcune sequenze de Il dormiglione siano pressoché mute.
Nel costruire il suo futuro distopico Allen ha volutamente usato alluminio da cucina, scatoloni al posto delle auto e costruzioni in cartongesso; e, se di lì a poco Star Wars avrebbe ridefinito gli standard della fantascienza dando il via alla “corsa agli effetti speciali”, Allen punta volutamente all’antirealismo che sfocia nel ridicolo. Invenzioni come la “sfera” e l’orgasmatic, fino alla geniale rivelazione finale riguardo all’identità del leader, più che far ridere a crepapelle strappano un sorriso, e confermano la bravura di Allen come regista visivo ancora prima che come commediante da palcoscenico e cabaret.
Nonostante il surrealismo della messa in scena, tra pudding che prendono vita e improbabili furti di nasi, Il dormiglione contiene gran parte degli elementi che ritroviamo in capolavori come Io e Annie o Harry a pezzi, ma che in realtà attraversano e percorrono l’intera produzione alleniana: il conflitto tra uomo e donna; l’ossessione per il sesso e per la psicanalisi; la nevrosi; lo scetticismo tipicamente postmoderno nei confronti di qualsiasi tipo di ideologia; i riferimenti più o meno velati alla politica e alla società newyorkese contemporanea.
Una pellicola sicuramente “acerba” e non all’altezza dei capolavori a venire, ma sicuramente indispensabile per apprezzare lo sviluppo di uno dei registi più influenti della New Hollywood.