Altro giro, altro cambio di stile. Il nostro sesto appuntamento della rassegna estiva su Woody Allen è dedicato a Harry a pezzi, film del 1997 reso celebre da una regia a dir poco frammentaria e da una sceneggiatura geniale ancor prima della messa in scena. La crisi di un artista vista attraverso la lente deformante del più grande commediografo contemporaneo. 

Proprio quando la sua fase più “sperimentale” sembrava ormai essersi conclusa, ecco che Woody Allen tira fuori dal cilindro Harry a pezzi, costringendo tutti a fare dietrofront e riconoscere, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, la grandezza del regista newyorchese. Allen interpreta Harry Block, scrittore di successo alle prese, per la prima volta nella sua carriera, con il blocco dello scrittore. 

Accanto ai risvolti ansiogeni che una situazione simile ha sulla sua vita quotidiana, Harry si trova a dover fare i conti con il proprio pessimo carattere nel momento in cui, in occasione di una premiazione nella sua vecchia università, scopre di essere evitato come la peste dalla maggior parte delle persone a lui vicine. Il motivo? Un carattere che definire paranoico è dir poco, oltre alla spiacevole tendenza a inserire nei propri romanzi aneddoti della vita privata propria e delle amanti/mogli/amici. 

A partire da un nucleo compatto – la premiazione alla vecchia scuola, omaggio a Il posto delle fragole di Bergman – Harry a pezzi è un susseguirsi di dilatazioni temporali, flashback e gag surreali. Sembra di essere tornati ai tempi di Io e Annie, ma questa volta, al posto di sottotitoli e doppia esposizione, la sperimentazione di Allen si spinge fino al punto di mettere fuori fuoco un attore. Letteralmente. Robin Williams, uno dei tanti alter-ego dello scrittore, si trova così a dover recitare la propria parte sotto forma di macchia sfocata, irriconoscibile. La potenza metacinematografica di un simile espediente ha varie sfaccettature, ma a una prima, superficiale occhiata, esso serve a dare un’idea visiva della crisi esistenziale in cui Harry sta sprofondando. 

Robin Williams non è il solo alter-ego di Harry, però. Essendo uno scrittore prolifico, durante la propria vita Harry ha creato una moltitudine di personaggi, e grazie a un montaggio frammentario e schizofrenico allo spettatore è concesso di fare conoscenza con essi; la messa in scena di eventi finzionali si mescola così con la vita reale di Harry, andando a comporre un mosaico in cui la realtà interagisce con la finzione, e viceversa. 

Oltre a Bergman è facile leggere un’ispirazione a Fellini, soprattutto nel finale in cui, al culmine di una rocambolesca serie di sfortune, i personaggi usciti dalla penna di Harry si congratulano in sogno con il proprio autore, il quale riesce così a superare il blocco. 

Strutturato come un insieme di gag tenute insieme da una solida struttura centrale, Harry a pezzi è il film in cui Allen può più dare sfogo alla propria schizofrenia registica. Ed ecco che Harry si improvvisa novello Dante e scende all’Inferno per fare quattro chiacchiere con il diavolo, mentre nella scena precedente dispensa consigli sulla vita, la religione e l’amore; oppure, ancora, può dare al Fato le surreali vesti della Morte che viene a bussare alla porta sbagliata, armata dell’inseparabile falce. 

Se già con La dea dell’amore (1995) Allen era tornato a una comicità più simile alla carnalità delle origini che non alla (relativa) pudicizia di ManhattanHarry a pezzi raggiunge l’apice della scurrilità, con un gran numero – cosa rara nell’Allen “maturo” – di “francesismi” e di palesi riferimenti sessuali. Una parentesi che ha suscitato qualche critica, quando in realtà non fa altro che adattarsi, pur senza piegarsi, al gusto mutato del pubblico di fine anni ’90, ottimamente rappresentato dal cinema di Tarantino. Anzi, proprio la verve politically incorrect del film, giustificata dalla schiettezza del protagonista, è ciò che lo rende uno dei più importanti di Allen, se non il capolavoro del decennio.