Facciamo un salto di dieci anni e, per questo quarto appuntamento estivo con il cinema di Allen, viriamo decisamente su tinte più scure. Crimini e Misfatti non è solo il capolavoro del decennio anni ’80, ma è soprattutto una tragica e disillusa incursione nelle profondità dell’animo umano, a metà tra Edipo e il dramma borghese.
Tra gli artisti che più hanno ispirato lo stile di Woody Allen, accanto all’onnipresente e spesso ricordato Groucho Marx, un posto di rilievo lo occupa Ingmar Bergman, celeberrimo autore de Il settimo sigillo. Considerato a ragione mostro sacro del cinema internazionale alla pari di un Welles o di un Kubrick, lo stile del regista svedese coniuga tematiche esistenzialiste a una messa in scena rigorosissima, di stampo teatrale.
Ora, a una prima, superficiale occhiata può risultare difficile sovrapporre l’immagine dell’austero, criptico Bergman al commediografo Allen. Eppure quest’ultimo non ha mai nascosto il suo amore spassionato per il cinema bergmaniano, arrivando persino a girare Interiors nel 1978, tragedia non priva di una certa pesantezza e palesemente infarcita di Bergman. Ciò che voglio sottolineare è che la duplice tensione tra comico e tragico (tra apollineo e dionisiaco, per usare due categorie care a Nietzsche) permea lo stile di Woody Allen sin dai primi, sperimentali lavori.
Alla luce di queste premesse non deve sorprendere che l’autore di Io e Annie sia riuscito a girare un’opera cinica e disillusa come Crimini e Misfatti. Primo, vero capolavoro drammatico di Allen – ci sono stati altri tentativi, ma non riusciti come questo – Crimini e Misfatti vede sfiorarsi due storie parallele: da una parte abbiamo Judah Rosenthal (Martin Landau), celebre chirurgo diviso tra moglie e amante; dall’altra Cliff Stern (Woody Allen) è il classico inetto alleniano, la cui infatuazione per la produttrice Halley (Mia Farrow) lo porterà a ridefinire il proprio matrimonio e la propria visione del mondo.
Martin Landau interpreta un personaggio profondamente tragico, quasi shakespeariano nella sua imponente presenza scenica. Quando l’amante minaccia di rivelare tutto alla moglie, infatti, Judah non riesce a immaginare altra soluzione che non sia l’omicidio per mettere a tacere lei e i propri scheletri nell’armadio. Ed ecco che la severa morale dell’Antico Testamento, inculcatagli da piccolo, riaffiora in un uomo sempre più tormentato dai sensi di colpa, dilaniato da due imperativi inconciliabili: l’etico e il conveniente.
Sulla scia di una tendenza sempre più frequente negli anni, Woody Allen si ritaglia qui una parte “minore”, indispensabile però nel fornire quei momenti comici di cui il primo segmento è privo. Oltre a fare da contrappeso comico, però, Cliff sviluppa e approfondisce le tematiche sollevate da Judah, quali l’importanza della fortuna nelle relazioni umane (tema che sarà centrale in Match Point) e la sostanziale amoralità dell’Universo.
Si può dire che, benché i due personaggi si incrocino solamente nel finale, dando forma a una delle riflessioni più agghiaccianti dell’intera filmografia alleniana – “Io sto parlando della realtà… voglio dire, se vuole un lieto fine vada a vedere un film di Hollywood”, sentenzia Judah a uno sconsolato Cliff – benché i due si incontrino solo nel finale, dicevo, la coesione delle due trame è garantita da una fitta rete di rimandi filosofici, etici e religiosi.
Trattandosi di una tragedia in piena regola, è lo spettatore a dover prendere una posizione al termine del film: Allen si rifiuta di appianare i conflitti, e, anzi, li amplifica in un infinito gioco di specchi. L’accenno a una morale finale non è altro che un invito spassionato a riflettere su quanto visto, e a partire da questo crearsi la propria morale, la quale, utopisticamente, dovrebbe riuscire a conciliare l’inconciliabile.
Crimini e Misfatti scava una ferita insanabile nello spettatore sufficientemente sensibile, e porta a galla le nude contraddizioni presenti nell’animo umano.