Per me domenica significa relax. Che faccia caldo o che stia per nevicare, non esiste domenica che io possa decidere di passare nell’ozio totale. E con ozio, ben attenti, intendo il non-fare. Perché rilassarsi è un diritto, forse anche un dovere, ma poltrire nella noia più totale è tutt’altra cosa, e io personalmente non l’apprezzo più di tanto. Sin da piccina, infatti, sono stata educata con l’idea che l’ultimo giorno della settimana fosse quello da santificare, quello da rispettare, quello da godere. E così, con mamma, papà e fratellino per mano, partivamo, per la gita fuori porta del momento. Al mare, in montagna, in città o per musei. Una passeggiata al lago o un giro in bicicletta. L’importante era scacciare ogni cattivo pensiero, concentrarsi solo sulle cose belle, e assaporare attimi di felicità.
Lo sanno bene anche i protagonisti di Domenica d’Agosto, romani, in bianco e nero perché di 1950 stiamo parlando. Loro, ad esempio, dalla capitale italiana decidono di scappare, per spostarsi sul litorale di Ostia e godersi il meritato relax. Diretto da Luciano Emmer, soggetto di Sergio Amidei e sceneggiatura redatta a quattro mani da Brusati, Emmer, Macchi e Zavattini, si dice sia questo il film che per antonomasia diede inizio all’epoca del neorealismo rosa.
Inserito fra i 100 titoli italiani da salvare, Domenica d’Agosto racconta in modo sopraffino, con una suddivisione a episodi tipica dello stile cinematografico di quegli anni, la felicità, le preoccupazioni e le sfide che ognuno di noi prima o dopo è destinato ad affrontare. Commedia, semplice ma non banale, perfezionata nel dettaglio da una regia, quella di Emmer, capace, lucida e giovane. Prima esperienza da produttore per Amidei, un successo riuscito che, tuttavia, di primo impatto non colpì positivamente la critica.
Un cast che a oggi riconosciamo importante, ma che all’epoca non venne poi considerato di vero spessore. Da Anna Baldini a Marcello Mastroianni che, pensate, fu doppiato in quest’occasione dal grande Alberto Sordi. E, ancora, Mario Vitale nei panni di Renato, Corrado Verga alias il Barone Silvestri, Pina Malgarini in Ines, e Franco Interlenghi nelle vesti di Enrico. Una sinossi a intreccio, quasi capace di renderci osservati e voyeuristi anche controvoglia, quasi il film stesse descrivendo noi in primis e solo una storia da raccontare in seconda istanza.
Un gruppo di ragazzini in bicicletta, una famiglia un po’ “caciarona” a capo di un’automobile datata e più rumorosa di un vecchio trattore, e poi un vedovo che spedisce la figlioletta in colonia perché la nuova compagna non vuole prendersene cura. Ma anche la povertà viene ritratta da Emmer con colori vividi ed emozioni toccanti. Quella povertà che ti trasforma, così come irrancidisce il cuore di Adriana che si lascia comprare per una bella auto e poco più. E poi i primi segni di emancipazione, con Ercole che lavora anche in estate, come vigile urbano. Vuole mantenere la fidanzata, che nonostante non siano sposati sta per avere un bambino. A lei, però, la gravidanza è costata cara, licenziata senza lusinghe da chi credeva amico.
Domenica d’Agosto dipana una matassa di racconti, facendo riflettere e sì divertire. Descrive la realtà italiana degli anni ’50, ricca di stereotipi ma tutti azzeccati. E nonostante a oggi sia classificato come uno dei capolavori del cinema italiano da non perdere per nulla al mondo, alla sua uscita nelle sale cinematografiche venne addirittura definito dal Centro Cattolico Cinematografico come una mera e disgustosa messa in scena, capace soltanto di descrivere dettagliatamente un susseguirsi continuo di atti esibizionistici.
Il Dizionario Morandi, a oggi, prova a spiegare il cambio d’opinione a proposito di questo prodotto, sostenendo che probabilmente il film, rivisto recentemente, piace maggiormente poiché testimonianza d’epoca. Io, nel mio piccolo, mi permetto di constatare che nonostante possa essere a tutti gli effetti considerato quasi un lavoro neorealistico anemico, credo alla sua uscita non riscontrò il successo meritato per causa nostra. O meglio, perché agli italiani dava fastidio vedersi ritratti come quello che effettivamente, ancora oggi, siamo: così, semplicemente italiani.