Nel 2010 Giorgia Cecere ha esordito alla regia con Il primo incarico, presentato alla 67 Mostra del Cinema di Venezia. Cinque anni più tardi è la volta di In un posto bellissimo e, in linea con il proverbio “squadra che vince non si cambia”, vediamo nuovamente la palermitana Isabella Ragonese nel ruolo di protagonista. Due pellicole bastano per capire che alla regista stanno a cuore ritratti di donne comuni, quotidianamente divise tra rogne famigliari e minacce esterne.
questo il caso di Lucia (Ragonese), donna (e madre) tormentata dall’idea che il marito, Andrea (Alessio Boni), la stia tradendo. Il dubbio le si insinua giorno dopo giorno più forte e concreto, la rende vulnerabile a tutto ciò che fino a quel momento si era tenuta dentro, in primis la morte di un’amica d’infanzia. Lucia sembra una di quelle donne ferite e desiderose di cambiare con cui è facile empatizzare, almeno sulla carta.
La realtà dei fatti, però, è ben diversa: difficile identificarsi con un personaggio scritto così male, privo di un reale spessore. I suoi goffi tentativi di comunicare – con il marito, con l’insegnante di scuola guida, o con un venditore ambulante conosciuto per caso, Feysal – vengono perlopiù scambiati per capricci infantili, e a scacciare questa fastidiosa impressione non basta l’aura da vittima che la regista cerca di cucirle attorno.
I difetti del film hanno però radici ben più profonde, e partono da una recitazione mediamente insufficiente alla noia che, puntualmente, si impossessa della mente dello spettatore. Difficile rimanere attenti anche volendo, visto che buona parte dei dialoghi è resa incomprensibile da attori che si mangiano pezzi di frase a colazione. Passi il figlio di Lucia e Andrea per la sua giovane età (ma neanche più di tanto, visto che non è raro trovare bambini dalle capacità attoriali invidiabili), ma in questo film Alessio Boni sembra aver dimenticato le basi di dizione e di recitazione teatrale. Non che gli altri attori diano prove memorabili, ma almeno la Ragonese compensa la scarsa loquacità del suo personaggio con una gamma apparentemente infinita di sospiri, smorfie, mezze frasi e comportamenti incomprensibili senza una buona dose di immaginazione da parte del lettore.
Passi una recitazione svogliata, passi anche una sceneggiatura che non si sa dove voglia andare a parare, ma la vera pecca de In un posto bellissimo è proprio l’incapacità di stabilire un contatto empatico con Lucia, personaggio che – lo sottolineo – è presente nella quasi totalità delle inquadrature del film. È come passare giorni e giorni accanto a una persona, dedicargli tempo e fiducia, salvo poi essere ripagati con freddezza non priva di un certo fastidio: è desolante, come desolante è assistere a una pellicola che, proponendosi di “indagare il cuore femminile”, restituisce della donna un’immagine sciatta, approssimativa.
Mi risulta difficile, insomma, credere che qualcuno possa sentirsi effettivamente e sentimentalmente “vicino” a Lucia, benché la sua vicenda nasconda un archetipo positivo di emancipazione femminile.