Amy – The Girl Behind the Name, il documentario sulla vita della cantante soul e jazz Amy Winehouse, è uscito nelle sale italiane per soli tre giorni – il 15, il 16 e il 17 settembre – distribuito da Nexo e Good Film. Il regista, per intenderci, è Asif Kapadia, già dietro la macchina da presa per l’apprezzatissimo docu-film su Ayrton Senna, che, con perizia e pazienza, dopo aver bussato a centinaia di porte, è riuscito nell’impresa titanica di raccogliere oltre sette ore di filmati inediti e personali che ritraggano con pennellate crude ma efficaci la vita della cantante dietro le quinte e li ha arrangiati con sapienza, realizzando un filmato di oltre due ore. Alla realizzazione del documentario hanno partecipato attivamente ex promoter, manager, agenti, produttori di Amy, persino le guardie del corpo, ma soprattutto gli amici di una vita.

Il film si apre infatti mostrandoci una Winehouse quattordicenne alla festa di compleanno dell’amica d’infanzia Lauren che, insieme a Juliette e Nick (che fu anche il suo primo agente) saranno gli unici veri pilastri stabili su cui la ragazza poté contare fino alla tragica morte, avvenuta il 23 luglio di quattro anni fa.

Fin dai primi minuti, lo spettatore intuisce la direzione che prenderà il progetto e lo scopo del regista, cioè farci vedere e quasi toccare con mano l’essenza più autentica della Winehouse, cancellando con un colpo di spugna netto e rigoroso l’immagine che un po’ tutti, superficialmente, abbiano finora avuto di lei, quella cioè di una povera ragazzaccia “maledetta” dal look tutto beehive, tatuaggi e trucco “alla Cleopatra” che, drogata e ubriacona come gli altri suoi “soci” del Club 27, è morta in modo tragico privando il mondo della sua voce meravigliosa. 

Un cliché abusato e usato a sproposito, quello del Club 27, che con Amy non ha nulla a che fare ma che a tabloid e giornali è sempre venuto comodo per etichettare una personalità complessa e sfaccettata come la sua ed evitare di guardare in faccia il vero dramma che una vicenda del genere nasconde dietro a sé, behind , appunto. tanto semplice allontanare dai noi stessi la Winehouse-persona, rendercela estranea se usiamo unicamente il criterio delle droghe e delle dipendenze in generale: ma Amy – ci mostra a chiare lettere Kapadia – non può essere chiusa nella scatola nera dei rocker maledetti e pieni di soldi che se la sono cercata per colpa di vari abusi. 

Dai girati privati, ci appare come una ragazzina dolce e fragile, quasi una di noi, e ci muove a una tenerezza infinita. Nulla in lei è artefatto o costruito: la sua genuinità e ingenua umanità sono quasi disarmanti. “I like your sense of common“, le fa notare durante una delle prime interviste tv uno showman. Non c’è nulla in lei della star e non c’è un’occasione in cui la si senta parlare di soldi, di contratti, di necessità di fare concerti unicamente per gli introiti e per ottenere visibilità.

“Non vorrei mai diventare famosa, non saprei come gestire il successo”, disse quando nel 2003 uscì Frank, il suo primo album, lasciando intendere che l’unica cosa che le interessava davvero fosse la musica, con la quale aveva un rapporto vero, sublime, viscerale. Poter cantare, suonare e scrivere canzoni erano le uniche cose che le stavano a cuore: “Io so che ho un dolore dentro, ma quando ho la chitarra in mano e mi metto a suonare tutto sparisce e per un’ora io sono contenta. Mi spiace per chi non possa avere un rifugio del genere”, confessa a un certo punto, ribaltando quasi i ruoli tra lei e lo spettatore, che istintivamente sente una fitta di invidia per una donna che, pur con tutti i suoi limiti, il suo desiderio di autodistruzione e i suoi problemi, non solo ti sbatte in faccia il suo perfetto Eden, ma dichiara in tutto candore di essere realmente dispiaciuta per chi non riesce a provare in Terra un assaggio di Paradiso come lei, per chi non ha un feeling così sublime com’è il suo per la musica.

Un amore puro, quello per la musica, per lo scrivere di persona, piegata sul suo taccuino, pezzi che vengono dal profondo del suo vissuto e della sua esperienza, che ha purtroppo come contraltare quello umano: il suo rapporto a senso unico con il padre, Mitch, che lei adorava ma che sembra sempre essere più interessato ai soldi che al benessere psico-fisico della figlia, e quello – malato e “cacofonico” – con il marito Blake Fielder-Civil, che la introduce a droghe più pesanti come crack ed eroina. “Amy era una ragazza che voleva solo essere amata”, afferma Nick, il suo primo agente, all’inizio del documentario, e ogni fotogramma del lavoro di Kapadia lo sembra urlare. Amy non è solo e semplicemente una malata, una tossicomane bulimica e sregolata. Amy, cresciuta con un padre assente e sposata con un uomo che, dopo averla lasciata, torna da lei appena diventa famosa, ha una sete di amore che la divora, la uccide, come lei stessa spiega senza mezzi termini nella hit Love is a Losing Game, estratta dal suo secondo album Back to Black.

In un certo senso, Amy è stata semplicemente sfortunata, circondata e circondatasi di uomini che non hanno fatto altro che usarla e logorarla, mentre, per il ruolo “istituzionale” che rivestivano, avrebbero dovuto proteggerla dal mondo e da se stessa. Un vuoto d’amore necessario, il suo, che nemmeno il cibo, le droghe, l’alcol e la tanto amata musica hanno potuto colmare. 

Amy è un po’ figlia di tutti noi che, aridi e incapaci di amore vero, da soli non siamo in grado nemmeno di prenderci cura di chi dovremmo e la sua è una storia che ci può insegnare a essere più rispettosi e attenti di chi professiamo di amare solo a parole, ma poi calpestiamo con gli stivali del nostro meschino egoismo.