Denis Villeneuve è uno di quei registi da cui so di potermi aspettare tanto. La sua penultima pellicola in ordine cronologico, Enemy, è un allucinante e allucinato thriller psicologico che è riuscito, nonostante (e forse proprio grazie a) un finale che definire spiazzante è dire poco, a farmi respirare atmosfere noir per certi versi avvicinabili al cinema di Lynch. con un carico non indifferente di aspettative, quindi, che ho affrontato la visione di Sicario, presentato lo scorso maggio a Cannes. 

Per chi conosce già Villeneuve è d’obbligo un chiarimento preliminare: Sicario si allontana sensibilmente dalle atmosfere del film precedente, e rimanda piuttosto a thriller più classici, con cui il regista si era già cimentato (Prisoners). Nell’assolato e brutale confine tra Stati Uniti e Messico, l’agente dell’FBI Kate Macy (Emily Blunt) viene coinvolta nella lotta contro i cartelli della droga. A guidarla un loquace quanto enigmatico agente (Josh Brolin) e un altrettanto sfuggente sicario (Benicio Del Toro). Lì Kate si renderà conto che, per raggiungere i propri scopi, non sempre la via “giusta” è anche quella più efficace, e che nella lotta al narcotraffico è quanto mai azzeccato il detto “il fine giustifica i mezzi”. 

Il prologo, uno spietato mix tra azione e orrore, getta brillantemente le basi dell’intera pellicola, promettendo di trascinare lo spettatore in una terra di confine che ha tutti i tratti di un Inferno dantesco. Solo che, se altrove il regista ha dimostrato di saper plasmare e trasfigurare la realtà con intenti simbolistici, qui la sua mano è quella, fredda, di un fotografo. Sicario rimane ancorato alla realtà fino alla fine, e nel suo iperrealismo mostra ciò che ogni regista noir, da Howard Hawks in poi, si è premurato di mostrare: la sottile linea che separa il Bene dal Male. 

Persino i personaggi ricalcano alla lontana i classici stereotipi del noir chandleriano, con uno spregiudicato Benicio Del Toro al posto della femme fatale e il tema ricorrente della polizia corrotta, mentre i grattacieli di Manhattan lasciano il posto alle lande assolate dell’Arizona. La protagonista, dal canto suo, è una giovane agente con una concezione manichea di cosa è giusto e cosa è sbagliato (almeno all’inizio) non dissimile in questo dal classico detective un po’ idealista e ingenuo del noir anni ’50. 

Se Sicario riesce a reggere per due ore non è certo per la sua originalità, né per una parte finale che, tolti gli ultimi dieci minuti, inizia ad accusare qualche colpo. Nonostante ciò Villeneuve non delude, e la tensione che, anche grazie alla splendida colonna sonora, riesce a instillare nello spettatore merita da sola il prezzo del biglietto. Pochi altri registi riescono a rendere tangibile la pesantezza di una sequenza o di una singola inquadratura, e con questo film cupo, plumbeo e disilluso Villeneuve dimostra ancora una volta di sapersi muovere con disinvoltura all’interno di un genere – o, per meglio dire, di uno stile – come il noir.