Quando una serie televisiva o cinematografica diventa di culto – ovvero non solo ha successo, ma ha una base di fan attiva, calorosa, appassionata che contribuisce a creare l’aura mitologica attorno a quella serie ampliandola oltre il suo reale successo – si rischia che autori e creatori di quei prodotti cedano alle esigenze dei fan dimenticandosi quelle dell’opera e la loro propria creatività. Si chiama in gergo fan service. Un rischio in cui si è imbattuta anche una serie tv come Sherlock, rivisitazione in chiave contemporanea delle avventure di Sherlock Holmes, che alla terza stagione ha cominciato a dare evidenti segni di cedimento proprio in virtù di questo “vizio” in cui si preferisce accontentare le richieste dei fan piuttosto che creare al meglio.



Ora arriva sugli schermi cinematografici (per due giorni, il 12 e il 13 gennaio) “L’abominevole sposa”, lo speciale andato in onda il 1 gennaio in Inghilterra su Bbc, che serve da legante tra la terza e la quarta stagione (che dovremmo vedere sul finire dell’anno) e che pare un nuovo banco di prova per capire la salute della serie e la forma dei suoi autori. La trovata è ambientare l’episodio (lungo però 90 minuti e quindi cinematografico) ai tempi del “vero” Sherlock Holmes, mostrando Sherlock (Benedict Cumberbatch) e Watson (Martin Freeman) alle prese con il caso di una donna suicida che pure continua a commettere diversi delitti. Il come e il perché li riveleranno l’astuzia del detective, ma in realtà dietro a tutto ciò c’è uno stratagemma – che non riveliamo – con cui gli sceneggiatori Steven Moffat e Mark Gatiss (anche creatori della serie, e quest’ultimo attore nel ruolo di Mycroft, fratello di Sherlock) e il regista Douglass Mackinnon collegano passato e presento e creano un ponte per la quarta stagione.



Ovviamente l’occasione è ghiotta: come sarebbe la serie se fosse realmente ambientata nell’800 in cui si svolgono i racconti di Conan Doyle – che servono da spunto più o meno libero per ogni episodio? Il problema de “L’abominevole sposa” è che sembra scritto dai fan, tanto della serie quanto dei racconti originali. Magari di talento, ma pur sempre fan: Gatiss e Moffat hanno infatti riempito l’ora e trenta dell’episodio di pretesti per far sussultare o sghignazzare gli appassionati o strizzare loro l’occhio di continuo, dimenticandosi per buona parte lo spettatore comune e l’integrità del loro lavoro. Ci si concentra sempre sui protagonisti, sulle loro caratteristiche, sui loro tic e battibecchi come fossero tormentoni da sitcom, dimenticandosi – esattamente come nella maggior parte della terza stagione – della suspense e del gioco dell’intelletto che sarebbero alla base dello spettacolo.



E anche la regia arzigogolata, le macchinosità visive e narrative a getto continuo – come quel colpo di scena dopo un’ora che rende tutto molto vacuo prima della risoluzione finale o il colpo di coda prima dei titoli – appare slegata dalla forma de “L’abominevole sposa”, che vorrebbe rileggere il gotico inglese attraverso il filtro della ragione, e messa in atto solo per stupire il pubblico, che quello stupore se lo aspetta e quindi non si stupisce più.

Restano un bel finale, a riprova del valore di Sherlock quando si concentra sul racconto e si dimentica del mero gioco, e ottimi attori. Che come passatempo non sarebbe un cattivo bottino. Ma nell’ottica di una serie che ha esaltato e fatto riscoprire al pubblico il piacere del giallo puro sembra una consolazione un po’ magra.