Nel folklore europeo il revenant è una creatura a metà tra uno spettro e uno zombie, ovvero un essere che torna dal regno dei morti per vendicarsi dei vivi. Non è solo il cinema horror a essersi nutrito di questo archetipo, creando alcune tra le più celebri figure e filoni del genere; il tema della vendetta si è espanso a macchia d’olio sul grande schermo, fagocitando trasversalmente i generi più disparati. E il western, non da meno, è uno di questi.
Dopo il successo di pubblico e critica per Birdman, Alejandro González Inarritu punta nuovamente a conquistare l’Academy con Revenant – Redivivo, un western ambientato tra le nevi del Dakota con protagonista Leonardo Di Caprio. È suo, infatti, il ruolo principale di Hugh Glass, un cacciatore di pelli che, durante una battuta di caccia, rimane gravemente ferito da un grizzly. La compagnia lo lascia indietro, dandolo per spacciato, ma Hugh ha un conto in sospeso con un altro membro della spedizione, John Fitzgerald (Tom Hardy): tornato letteralmente dalla tomba, il revenant Di Caprio si incammina lungo la solitaria e dolorosa via della vendetta.
Basta aver visto Birdman per riconoscere anche in questo Revenant la mano inconfondibile del regista: le sequenze sono lunghe e ragionate, la macchina da presa dondola con virtuosistica disinvoltura, soffermandosi spesso e volentieri su paesaggi da cartolina. Qui non ci sono cowboys o saloon stipati di banditi, ma l’importanza data al paesaggio rimanda insindacabilmente ai film western da John Ford in poi, con tanto di tribù indiane a rinforzare l’immaginario.
La trama, già di per sé esilissima, viene diluita con il contagocce in un lungo arco di tempo – il film dura ben 156 minuti! – che, se contribuisce da un lato a creare un senso di massiccia epopea western, dall’altro rischia di far perdere di vista il punto focale, ovvero la vendetta del protagonista. Fortunatamente Inarritu non è un regista qualsiasi, e la pellicola, pur nella sua estensione, è costellata di inquadrature e sequenze da incorniciare nella pinacoteca della settima arte. Ghiaccio e sangue si imprimono con violenza sul volto di un Di Caprio all’apice della sofferenza, per poi scatenarsi in un climax di crudo realismo che chiude ad arte la vicenda.
Non ci si aspetti, comunque, la stravaganza visiva e verbale di Birdman: i dialoghi sono essenziali e asciutti, indispensabili per dare un minimo di caratterizzazione ai personaggi; la messa in scena è iperrealistica fino ad essere grottesca, con punte che sembrano uscite da un episodio di Bear Grylls, o da una versione distorta del Robinson Crusoe.
Ci troviamo di fronte a una storia vera, d’altronde, e, per quanto possa essere romanzata, l’illusione di realismo rimane intatta fino alla fine. Non mancano, comunque, una manciata di sequenze più propriamente oniriche e ben contestualizzate, fino a un’inquadratura finale che, citando direttamente Birdman, si cristallizza come marchio di fabbrica del regista messicano.