20 aprile 2010. La piattaforma petrolifera della BP, la Deepwater Horizon, sospesa al largo del Golfo del Messico, è colpita da una devastante esplosione in seguito alla quale si riversano in mare più di 50.000 barili di petrolio. Il mondo intero seguì la vicenda per 87 giorni, preoccupato per i danni ambientali che impattarono sull’ecosistema oceanico, aggravati da uno sversamento che non accennava ad arrestarsi. A bordo della piattaforma erano presenti 126 lavoratori, alcuni dei quali non fecero ritorno. Un disastro ambientale, uno dei più gravi della storia degli Stati Uniti, su cui ancora si discute.
La Deepwater Horizon era un mostro, grande quanto un campo da calcio, sospeso nell’oceano, al largo della costa della Louisiana. Peter Berg, regista diDeepwater – Inferno sull’Oceano ci gira attorno, con la sua macchina da presa, mostrandoci l’imponenza della struttura che sfidava le profondità marine e i limiti umani. Da quella struttura sarebbero derivati milioni di barili di petrolio, che la storia ha invece consegnato al mare. Su questo gioiello tecnologico, avido di manutenzione, lavoravano 126 operai. Chi addetto al lavoro sporco, chi a bordo per dirigere, chi per controllare, chi per assaporare i profitti. E, come nel più classico dei film catastrofici, l’avidità, l’imprudenza, la stupidità divennero causa di uno dei disastri ambientali più gravi in tutta la storia degli Stati Uniti.
Berg non indugia sulla retorica, né sulla bramosia dei colpevoli, ma preferisce raccontare con sguardo documentale la storia dei suoi lavoratori. Ognuno con la propria storia. L’amore, gli affetti, i sogni parcheggiati sulla terraferma, in attesa di tornare e ricominciare a vivere. Per 11 di loro la vita si è fermata per sempre. Per tutti gli altri è proseguita, segnata dal dolore di un’esperienza drammatica che il film scaraventa nei cuori dello spettatore.
Deepwater – Inferno sull’Oceano è un film riuscito, abile nel catturare le emozioni, nel raccontare il lavoro, nell’immaginare paure e nel regalare spettacolo. Per due ore si mangia alla stessa mensa degli operai, respirando il puzzo oleoso delle operazioni e stringendo le mani sui braccioli delle poltrone in sala, come gli uomini sui macchinari, in equilibrio tra la vita e la morte.
Solo un altro mese. Solo un controllo in più. Solo un po’ più di prudenza. Sarebbe bastato poco per impedire all’inferno di scatenarsi. Il mostro minaccioso aveva dato segnali, ma in troppi si tappavano le orecchie. Deepwater indaga il tema della responsabilità, che si incastra con gli eventi che in breve tempo prendono il sopravvento in un film che cresce di ritmo e tensione. E pur senza porre troppe domande, fa riflettere sulla vita, sul destino, sull’avidità, sul coraggio.
L’America, con Berg, non perde l’occasione per fare autocritica, additando senza pudore l’impresa colpevole, con tanto di nomi e cognomi, e celebrando gli eroi, sparsi dovunque nell’animo cristallino dei buoni a stelle e strisce. L’oceano piange ancora il disastro, mentre risuona a gran voce la morale per tutti quelli che decidono: la speranza non è una tattica.