È un progetto sulla carta inconsueto quello alla base del nuovo film di Marco Bellocchio: prendere un best-seller come quello di Massimo Gramellini, sulla carta quanto di più lontano dall’immaginario del regista di Bobbio, e farlo proprio. Ma se si cala il velo del pregiudizio, si scopre che l’operazione è più interessante e riuscita del previsto.
Il film racconta, come sapranno i lettori del romanzo, la vicenda autobiografica del giornalista, che nell’infanzia ha subito il lutto della madre, una morte che non è mai riuscito a spiegarsi e che lo influenzerà in tutta la sua vita, nel lavoro e nelle relazioni. E quando ormai adulto scoprirà la verità il mondo sembrerà crollargli addosso.
Scritto da Bellocchio con Valia Santella e il premio Strega Edoardo Albinati, Fai bei sogni diventa un dramma psicoanalitico profondamente “bellocchiano”, in cui il tormento della figura materna e della famiglia in generale che accompagna Bellocchio fin dall’esordio con I pugni in tasca (“Prima uccidevo mia madre; ora ne rimpiango la morte”, ironizza Bellocchio sul rapporto tra i due film) si emancipano dal percorso autobiografico del romanzo, nel racconto ma soprattutto nella forma e nello stile.
Suddiviso in tre blocchi che qua e là si intrecciano e si interpolano (l’infanzia, la crescita professionale, la rivelazione), il film di Bellocchio è una riflessione dolente e severa sul peso che la madre e la famiglia hanno nella vita di un individuo, nel bene o nel male, che prosegue lo scandaglio privato che il regista ha spesso fatto del nucleo familiare, del calore e della diffidenza che può sprigionare, con un tono però più maturo, consapevole, in cui l’irruenza del passato, la carica rivoluzionaria, si tempera con ironia e rimpianto.
È soprattutto nella prima parte, quella dedicata al piccolo Massimo, che Fai bei sogni riesce a condensare la capacità del suo autore, in quegli interni così angusti, così connessi all’interno dei personaggi e allo stesso tempo così espressivi di una condizione universale (fotografia al solito bellissima di Daniele Ciprì), nel riflesso orrifico di quegli incontri in cui il sottinteso e il non detto vengono filtrati dal punto di vista del bambino come un mistero privo di romanticismo, raccontando lo spaesamento e la distruzione di una dimensione sanamente emotiva.
Ci sono un paio di zavorre a non dare la giusta pienezza al film: innanzitutto, il peana che Gramellini fa a se stesso, il lungo segmento dedicato al suo successo e alla sua glorificazione (nonostante la bravura di Valerio Mastandrea), che Bellocchio prova a correggere con tocchi acidi, ma senza che il disinteresse – suo e dello spettatore – verso il narcisismo dello scrittore possa sparire. E poi una co-produzione ingombrante, che impedisce la totale libertà del regista e impone alcune scelte di cast rivedibili, come Bérenice Béjo fuori parte, qui bellissima, mentre altrove è anche molto brava. Ma nonostante tutto, e in virtù di un bel finale, Fai bei sogni è un film che manda a casa il pubblico contento ed emozionato. A meno che il nome di Gramellini non sia un deterrente troppo forte da oscurare la lucidità di giudizio.