Una periferia sotto il cielo cupo del Nord, una dottoressa appassionata al suo lavoro, una giornata qualunque in cui visitare i pazienti e scrivere ricette. Jenny Davin (Adèle Haenel), la protagonista dell’ultimo film dei fratelli Dardenne, è giovane, graziosa e lavora come medico condotto a Liegi, dove vive da sola, senza apparenti legami. È convinta che un bravo medico debba evitare il coinvolgimento emotivo per mostrarsi sempre professionale, come spiega al suo stagista Julian (Olivier Bonnaud), che invece si lascia spaventare e resta impietrito quando un ragazzino ha una crisi epilettica.



Jenny è inflessibile, eppure i pazienti la amano perché è sempre presente, li aiuta, li ascolta, capisce di cosa hanno bisogno. Poi, qualcuno bussa alla porta dello studio medico dopo l’orario di chiusura e Jenny decide di non aprire, perché è tardi. Niente di strano, né di sbagliato, se non fosse per l’immagine registrata dalla telecamera di sorveglianza che la polizia le mostra il giorno seguente: a bussare invano era stata una ragazza di colore, trovata morta all’alba lungo l’argine del fiume. La ragazza senza nome che dà il titolo al film. 



Il senso di colpa per non avere aperto la porta comincia a ossessionare Jenny, che assume il ruolo dell’investigatrice per scoprire qualcosa di più sull’identità della giovane, rintracciare la famiglia, darle un nome. Cerca le persone che possono averla vista, infilandosi in internet caffè mal frequentati, interrogando un ragazzino che nasconde un segreto e il proprietario di un camper dove la vittima è stata vista prima di morire, finché non viene minacciata. Ma non smette. 

I registi affrontano così il tema dell’identità e della sua mancanza, l’importanza di avere un nome e un luogo, ma anche la problematica del senso di colpa, della responsabilità che tutti abbiamo nei confronti degli altri. I dettagli che Jenny raccoglie sulla giovane scomparsa portano alla luce la storia di un’immigrata e i suoi problemi, richiamando l’attenzione su argomenti di scottante attualità come la disoccupazione, lo sfruttamento e la mancanza di integrazione. 



Ma non c’è accusa, né condanna nel film, solo la riflessione ispirata dal percorso della protagonista, della cui vita non sappiamo quasi nulla, ma con cui è molto semplice simpatizzare. Jenny raccoglie in sé le contraddizioni che la rendono profondamente umana, la disponibilità verso il prossimo e la chiusura alle emozioni, l’istinto ad aiutare e l’autodifesa. Non agisce solo per dovere quando assiste i pazienti, che da parte loro percepiscono la sua sensibilità e la ripagano con gesti piccoli ma importanti, come un dolce regalato. Eppure, quell’unica volta in cui non ha teso la mano l’ha gettata nel panico, spingendola a confrontarsi con una situazione di cui si sente in parte responsabile e che la porta a superare i limiti della prudenza.

I dettagli e i primi piani su cui si sofferma la telecamera, l’indugiare su strade statali e cantieri, sulla vista desolante oltre la finestra del piccolo appartamento di Jenny, che spesso si alza di notte a guardare fuori come per cercare una risposta, rallentano il film, ma, allo stesso tempo, lo rendono intenso. Cerchiamo con lei la storia della sconosciuta, la seguiamo nel modo in cui si muove in una realtà modesta e quotidiana. Entriamo nella storia, insomma, per uscirne infine con qualcosa su cui riflettere.