Provate a chiedere a una cassiera di supermercato, magari di Carrefour, come ha fatto chi scrive, quanto dura la pausa tra i turni di lavoro, e scoprirete che dura quindici minuti e che l’argomento del film 7 minuti vi riguarda da vicino, più di quanto immaginiate. È esattamente di quindici minuti la durata della pausa in una fabbrica tessile di Latina, i cui proprietari, i fratelli Varazzi, hanno dovuto vendere la maggioranza delle quote a dei soci francesi. La nuova proprietà, che si presenta sotto l’aspetto di una donna bella, gentile e sofisticata, madame Rochette, garantisce il mantenimento del posto di lavoro a tutte le duecento operaie, ma a una condizione: la riduzione di sette minuti, da 15 a 8, della pausa tra i turni di lavoro. Bianca, Ottavia Piccolo, l’operaia più anziana, deve presentare la proposta di riduzione della pausa alle altre dieci delegate, che formano il consiglio di fabbrica, ed entro le 17 deve comunicare la risposta alla proprietà. 



Comincia così il nuovo film di Michele Placido, che con undici attrici mette in scena la tragedia del lavoro di oggi e la grandezza e la gravosità della democrazia. Alla base della pellicola c’è uno spettacolo di Stefano Massini, l’autore de “La trilogia di Lehman”, che racconta i 160 anni della banca d’affari Lehman, il cui fallimento nel 2008 ha avuto conseguenze planetarie sull’intero sistema capitalistico. Massini trovò l’idea di 7 minuti in un piccolo trafiletto di cronaca, dove si riferiva che in una fabbrica tessile di Yssigeuax, nell’Alta Loira, un consiglio di fabbrica aveva rifiutato, all’unanimità, perché ritenuta contraria alla dignità dei lavoratori, la proposta di ridurre di sette minuti la pausa tra i turni. 



Come ha raccontato lo stesso Massini nella conferenza stampa alla Festa del cinema di Roma, dove il film è stato presentato in anteprima, la vicenda del consiglio di fabbrica gli aveva ricordato quella della giuria popolare de La parola ai giurati. Twelve angry men (titolo originale) è il primo film diretto nel 1957 da Sidney Lumet ed è l’adattamento per il cinema di un originale televisivo, anch’esso diretto da Lumet e trasmesso nel 1954, proprio durante il periodo della caccia alle streghe del senatore McCarthy, da cui l’autore, Reginald Rose, trasse una pièce teatrale che è ancor oggi rappresentata in tutto il mondo da compagnie professionali e amatoriali. 



Il film di Lumet, considerato un classico del cinema, rispetta i principi aristotelici di unità di tempo, luogo e azione e dura quanto la vicenda narrata: una giuria popolare di dodici uomini, riunita in una stanza, deve decidere su un caso di omicidio: un giovane accusato di aver ucciso il padre. L’imputato, se verrà giudicato colpevole da tutti i giurati, al di là di ogni ragionevole dubbio, sarà condannato a morte. I giurati sono inizialmente convinti della colpevolezza del giovane, tutti tranne uno (interpretato da Henry Fonda) che, prima di condannare a morte un uomo, vorrebbe discutere. Il film è considerato universalmente una lezione sulla democrazia. Dimostra, meglio di un saggio, che nessuna decisione può dirsi democratica se viene presa sulla base di una presunta verità posseduta fin dall’inizio. Una deliberazione non è la semplice sommatoria di opinioni del tutto individuali, ma il risultato di un confronto tra chi partecipa alla decisione. 

Il film di Lumet, proprio per la forza del suo contenuto e l’efficacia della messa in scena, ha avuto diversi remake, uno russo, 12, diretto nel 2007 da Nikita Mikhalkov, uno indiano, uno giapponese del 2006, Dodici gentili giapponesi, di Koki Mitani e, persino, nel 2014, uno cinese, Dodici cittadini, di Xu Ang. In tutte le versioni i giurati sono maschi. Anche nel remake, diretto da William Friedkin nel 1997, con Jack Lemmon, la composizione della giuria è multietnica, ma tutti i giurati sono uomini: solo il giudice che, all’inizio, assegna il compito alla giuria, è una donna. 

Mancava una versione italiana e al femminile del film di Lumet. Questo è quello che hanno fatto Massini e Placido sceneggiando 7 minutiLa parola ai giurati non è, infatti, se non nell’ambientazione, un film giudiziario ma politico, nel senso più nobile, i cui temi principali sono quelli del “lusso” e della gravosità della democrazia, la quale richiede tempo e ci rende responsabili delle conseguenze delle nostre scelte. 7 minuti è un film politico che rinnova in maniera originale, ma si potrebbe dire persino geniale e molto italiana, la struttura de La parola ai giuratiinnestandola su uno dei temi più drammatici del mondo di oggi, quello del lavoro, e affidando il compito di affrontare i dilemmi e le responsabilità della democrazia a undici donne, a quella parte di umanità che solo nel secolo scorso ha cominciato a vedersi riconoscere parità di diritti e che, finora, nessuna versione nazionale del film di Lumet aveva ritenuto degna di averla come protagonista. 

Ma 7 minuti rende ancora più drammatica, anzi tragica, la vicenda. Dopo la prima parte del film, dove i personaggi vengono presentati (le delegate del consiglio, i fratelli Varazzi, interpretati da Placido e dai suoi stessi fratelli, madame Rochette, il coro delle operaie che aspettano di conoscere il proprio destino, gli operatori dei media, che riprendono e commentano la vicenda), ha inizio la corrida. Chiuse nella fabbrica, circondate dai loro strumenti di lavoro, undici donne devono affrontare una scelta, apparentemente insignificante, le cui conseguenze non ricadranno su un estraneo, ma su loro stesse, sulle operaie che rappresentano, forse sui lavoratori di altre fabbriche, e, chissà, sul futuro dei loro figli. 

Questa è l’idea di Bianca, l’operaia anziana, che vuole discutere la proposta, forse rifiutarla, e comunque non accettarla senza riflettere. Ma Nadia, invece, interpretata da una Maria Nazionale che è una vera forza della natura, non ha dubbi. Non si può dire no. È inutile fare filosofia. Non si può rischiare di rimanere senza lavoro, quando si ha un marito disoccupato e quattro figlie femmine, solo per non rinunciare a sette minuti. Marianna, Violante Placido, che è l’unica impiegata costretta da un incidente su una sedia a rotelle, comincia, però, a dubitare che siano solo sette i minuti oggetto della proposta. Greta, una straordinaria Ambra Angiolini, coperta di tatuaggi e arrabbiata con il mondo, si chiede cosa è disposta a fare per lavorare e si risponde amaramente: tutto. Qualcuna sostiene che non si può cambiare il mondo e certo non lo possono fare loro. Ma un’altra ribatte che, forse, non è che non si può cambiare, è che non si vuole. 

Le operaie di origine straniera, una rumena, un’albanese, una di colore, ricordano che nei loro paesi d’origine non ci sono contratti, non ci sono pause, si mangia mentre si lavora. Perché rinunciare per sette minuti ai tanti privilegi che hanno adesso in Italia? Isabella, Cristiana Capotondi, è incinta e deve pensare al futuro di suo figlio. Ornella, Fiorella Mannoia, madre di Isabella, è l’altra operaia anziana, ha fiducia in Bianca, ma questa volta, tra una sigaretta e l’altra, pensa che si sbagli. La più giovane, Alice, ha vent’anni, è appena entrata in fabbrica. Perché dovrebbe rinunciare per una questione, apparentemente, di principio, al proprio futuro? 

Il tempo passa e le undici discutono, litigano, si insultano, si feriscono. Fuori i Varazzi aspettano il verdetto. La manager francese, una donna come le operaie, ma che appartiene alla razza padrona, freme. Alla fine cinque donne sono per il sì e cinque per il no e solo una deve ancora votare. Ma mentre il testo teatrale di Massini lascia il finale aperto, Placido sceglie qual è la donna il cui voto è decisivo e di farci sapere come ha votato. 

La produzione del film è potuta partire, ironia della sorte, proprio grazie ai finanziamenti di una società francese che ha ritenuto il progetto attualissimo. Placido dirige come un direttore d’orchestra le undici attrici, le fa vibrare e ne garantisce l’armonia. Le filma contemporaneamente con tre o quattro camere e può così mostrare anche le reazioni di ognuna di loro alle azioni e alle parole delle altre. In questo modo lo spettatore è al centro della scena e non può fare a meno di provare empatia e partecipare a problemi che sono anche suoi. 

È un film emozionante 7 minuti, che coinvolge, uno spettacolo che non può lasciare indifferente il pubblico, che invita al dibattito. È un film che dimostra come dire no può voler dire cambiare, ma richiede coraggio e tempo per riflettere, mentre dire sì vuol dire rinunciare ai propri diritti per paura, ma, soprattutto, per fretta e superficialità.