Durante il secondo dopoguerra, sulle coste dell’isola dell’Asinara si ritrovano naufraghi un gruppo eterogeneo di persone sbattuti lì dopo una tempesta in mare. Alcuni fanno parte di una piccola compagnia teatrale in cerca di successo, altri sono pericolosi camorristi che hanno colto l’occasione della burrasca per liberarsi e hanno minacciato i teatranti di mischiarsi con loro per sfuggire al carcere. L’unica struttura presente sull’incontaminata isola sarda è proprio un penitenziario in cui vengono rinchiusi dal direttore, un convincente Ennio Fantaschini. Sarà proprio lui ad aver l’idea di costringere i naufraghi a inscenare “La Tempesta” di Shakespeare per poter distinguere gli attori dai camorristi.



I naufraghi inizieranno così a recitare, guidati dal capocomico Oreste Campese, interpretato da Sergio Rubini, che dopo anni torna a recitare testi di Shakespeare come a inizio carriera. Dal momento però in cui saliranno sul palcoscenico avverrà un paradosso misterioso: i naufraghi non indosseranno una maschera per recitare, ma se la leveranno riscoprendo la loro umanità.



Il direttore, che sperava di scoprire chi mentiva della compagnia, vedrà degli uomini che rimarranno affascinanti dalle domande esistenziali contenute nel testo scritto da Shakespeare e che sperimentando finalmente una strana libertà non avranno più il problema di fuggire. Si concretizza così la premonizione fatta da Oreste, quando diceva che il teatro “mette le ali all’anima”.

Attorno al palcoscenico allestito dai teatranti, nel frattempo, prosegue una vita intensa, piena anche questa di finzioni, bugie e amore, come quello che prova proprio la figlia del direttore per il figlio del boss dei camorristi. La stoffa del film prosegue intrecciandosi su diversi piani narrativi che hanno confini poco chiari, rendendo l’opera “sognante”, come lo stesso titolo del film (La stoffa dei sogni) suggerisce.



Proprio come in una tempesta si mischiano le domande sul desiderio di libertà dei camorristi, sulla necessità di essere perdonati, come quella che sente il direttore del carcere nei confronti della giovane figlia che ha obbligato a vivere segregata con sé su un’isola semi-deserta; ma ci sarà anche l’amore della figlia innocente per il “peccatore” camorrista. Il regista Cabiddu non vuole dare facili risposte, ma, come un vero artista, vuole suscitare, provocare una reazione in noi.

Non fa sconti quindi e rende il testo del film oggettivamente difficile, con numerosi orpelli e (troppi) dialoghi in dialetto. Ma si sa che comprendere qualcosa di vero non è mai una passeggiata, e allora conviene munirsi di pazienza e seguire la vorticosa trama fino ad arrivare alla fine e godersi la quiete dopo la tempesta. Solo chi arriverà alla fine scoprirà che anche di fronte alla luce dopo il maremoto non tutto è chiaro, non tutto è pacifico e assodato, ma ci si troverà con una convinzione in più: siamo nati per affrontare le tempeste della vita, e che è dentro a questa, e non dopo, che ognuno può scoprire chi veramente sia. 

A quel punto allora il problema non sarà più riconoscersi ciascuno con una propria maschera, chi da camorrista, chi da direttore e così via, ma ognuno sarà se stesso, proprio come quel manipolo di “scappati di casa” dei naufraghi su un piccolo palco del carcere dell’Asinara.